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Lo stato di salute del servizio sanitario

A cura del dott. Marco Boni, direttore responsabile di News4market

La spesa sanitaria pubblica del nostro paese è al di sotto della media dei paesi Ocse e della Ue. Ma la salute dei cittadini non ne ha sofferto. L’esperienza dei piani di rientro potrebbe dunque essere un serio esempio di spending review che funziona.

Due rapporti “fotografano” il Ssn

Come sta il nostro Servizio sanitario nazionale? Due rapporti pubblicati di recente – uno firmato dall’Ufficio parlamentare di bilancio, l’altro dalla Commissione europea – ne forniscono due fotografie indipendenti, largamente sovrapponibili, che dovrebbero indurre il governo a qualche riflessione.

Primo: la spesa sanitaria pubblica in Italia è ormai al di sotto della media dei paesi Ocse e dell’Unione Europea. In rapporto al Pil, il nostro dato 2018 si attesta al 6,5 per cento contro il dato Ocse del 6,6 per cento. Siamo distanti da Germania e Francia, che superano il 9 per cento del Pil, e dallo stesso Regno Unito, che spende il 7,5 per cento del Pil; ma non siamo la Grecia, che alla sanità dedica solo il 4,7 per cento. La Spagna, con un sistema simile al nostro per il ruolo assegnato alle regioni, destina qualche decimale di prodotto meno di noi (6,2 per cento). La situazione attuale è il risultato delle scelte di bilancio adottate dai governi che si sono succeduti dall’affacciarsi della crisi finanziaria internazionale del 2008: pare chiaro l’intento di stabilizzare la spesa con la politica del “miliardo in più all’anno”, che serve per difendersi dalla critica di chi sostiene che il Ssn è stato progressivamente de-finanziato, ma non risolve la questione politica di fondo su che cosa davvero si voglia fare dell’universalità del Ssn.

Secondo: gli italiani stanno relativamente bene. La speranza di vita media alla nascita è arrivata a 83 anni, più alta della media Ue di circa 2 anni, con un guadagno di più di 3 anni tra il 2000 e il 2017. Siamo anche un paese meno diseguale di altri per quanto riguarda la salute: il divario nella speranza di vita a 30 anni in base al livello di istruzione, tra chi ha un titolo universitario e chi non ha nemmeno un diploma, è di 2,9 anni per le donne e 4,5 per gli uomini; per la Ue le differenze sono rispettivamente 4,1 e 7,6 anni. Altrettanto importante è notare che le disparità regionali nella speranza di vita sono meno marcate di quelle legate all’istruzione. Qualche ragione di preoccupazione in più si ha osservando il dato relativo alla speranza di vita in buona salute a 65 anni, pari a circa 10 anni per uomini e donne: è di poco inferiore alla media Ue e segnala l’effetto delle malattie croniche, talvolta invalidanti, sulla salute degli anziani.

Terzo: la combinazione di bassa spesa e buoni risultati di salute giustifica il giudizio diffuso sull’efficacia del nostro Ssn.

I dati presentati nei due rapporti offrono spunti di riflessione sui possibili meccanismi che contribuiscono a spiegare il risultato, come la qualità delle cure e l’accesso ai servizi. Sul primo punto, gli ospedali italiani garantiscono cure di qualità: per esempio, la mortalità a 30 giorni in seguito a infarto miocardico acuto è tra le più basse nell’Ue ed è ulteriormente migliorata negli ultimi dieci anni. Sul secondo, l’accessibilità ai servizi non è dissimile dalla media dei paesi Ue: il dato più recente parla del 2 per cento di cittadini che segnala bisogni sanitari insoddisfatti per ragioni economiche, distanza geografica o tempi di attesa (che, almeno per la chirurgia elettiva, sono tra i più bassi in Europa); la quota sale al 5 per cento tra i più poveri. Un confronto in chiave dinamica non è possibile per via delle modifiche intervenute nei questionari di rilevazione dei dati (con i numeri precedenti che segnalavano percentuali ben maggiori), ma il dato sui poveri induce a riflettere su quanto le disuguaglianze dipendano dall’effettiva capacità del sistema di rispondere ai bisogni e quanto invece dall’incapacità di cogliere le opportunità che offre. Un esempio su tutti sono gli screening gratuiti per tumori di vario tipo.

Un buon esempio di spending review

Il quarto spunto di riflessione riguarda gli evidenti risultati delle politiche di ricomposizione dell’offerta di servizi dal lato dell’ospedale, mentre permangono ancora criticità sul fronte dei servizi territoriali. I dati macro ci dicono che i posti letto sono ulteriormente scesi nel decennio della crisi, arrivando a 3,2 per mille abitanti contro la media europea di 5. La riduzione della capacità produttiva degli ospedali è stata accompagnata anche da una diminuzione delle unità di personale impiegato. Sia i posti letto sia il personale si sono ridotti di più nelle regioni sottoposte a piano di rientro. Dal confronto europeo, tuttavia, si vede che l’Italia (come la Spagna) impiega più medici rispetto alla media Ue (4 per mille abitanti contro 3,6) e molti meno infermieri (5,8 per mille abitanti contro 8,5). Segno che negli altri paesi la transizione verso modelli di cura che contemplano le cronicità è già stata affrontata. La discussione sulle carenze di personale (e sulle connesse necessità di formazione) non può prescindere da una programmazione del ruolo che si vorrà assegnare al Ssn e del perimetro dei servizi che deciderà di garantire l’assicurazione pubblica.

Va poi sottolineato che il Ssn è sostanzialmente in equilibrio finanziario (anche se la crescita dei disavanzi da 1 a 2 miliardi di euro tra il 2017 e il 2018 desta qualche motivo di preoccupazione). Le evidenze disponibili mostrano che il raggiungimento dell’equilibrio finanziario è il risultato dell’applicazione dei piani di rientro nelle regioni maggiormente indebitate a partire dal 2007. Siccome la salute non sembra essere peggiorata, anzi le regioni sembrerebbero aver migliorato la loro performance sul fronte della fornitura dei livelli essenziali di assistenza, l’esperienza dei piani di rientro potrebbe essere un serio esempio di spending review che funziona. Forse, è per questo che si è preferito non dirlo troppo in giro.  (fonte: La voce info)