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Il payback. Intervista a Massimiliano Boggetti, Presidente di Confindustria Dispositivi Medici

Sulla complicata  questione del payback il presidente di Confindustria Dispositivi Medici Massimiliano Boggetti, spiega a pieno i termini e le ricadute sul comparto e sul Ssn

Un provvedimento molto discusso che, se applicato, rischierebbe di innescare un pericoloso effetto domino per il comparto dei dispositivi medici e un ancor più fosco scenario per i servizi del sistema sanitario nazionale. Tre mesi di tempo, una trattativa serrata, la ricerca di risorse e un dibattito che sta tendendo con il fiato sospeso migliaia di lavoratori della filiera. Questi gli elementi cardine di una questione complicata quale è quella del payback. Per comprenderne a pieno i termini, e le ricadute, ci siamo rivolti al presidente di Confindustria dispositivi medici, Massimiliano Boggetti, al quale abbiamo chiesto di scattarci una fotografia della situazione

Iniziamo dal principio: il payback. Tutti oramai conosciamo i termini della questione. Voi cosa chiedete al governo?
La nostra posizione resta la stessa dal 2015, ossia da quando il payback è stato introdotto. Si tratta di una manovra ingiusta, iniqua e, nel nostro settore specificatamente, del tutto inapplicabile. Pertanto noi ne chiediamo con forza la cancellazione.

Quale, in sintesi, il rischio che corrono le imprese italiane?
I rischi sono molteplici e non riguardano solo il mondo dell’impresa. Per il comparto parliamo di un accorciamento molto forte della filiera, con un rischio chiusura per insolvenza di piccole imprese, principalmente nel settore della distribuzione e fornitura, e un disinvestimento delle multinazionali (siano esse italiane o di capitale estero). Se questo scenario si verificasse, si configurerebbe un rischio maggiorato di mandar deserte le nuove gare di appalto con, a cascata, un impatto negativo sulle forniture stesse agli ospedali. Un concreto rischio si prefigurerebbe anche per la manutenzione delle apparecchiature installate e che oggi vengono mantenute efficienti grazie all’industria italiana. C’è poi naturalmente un rischio ricaduta per il settore occupazionale, da non trascurare. Aggiungo poi altri due pericoli importanti: quello per i medici/operatori sanitari e quello per i pazienti.

Partiamo dal personale medico
Oggi si fa un gran parlare di trattenere i medici e di scongiurare l’esodo delle professionalità verso l’estero o verso il settore privato. Ma è del tutto evidente che il problema non è circoscritto alle sole questioni di stipendio, compensazione dei turni o alle difficoltà di lavorare negli ospedali. È infatti ovvio che un medico, soprattutto se parliamo di un professionista qualificato, non può rimanere a lavorare in strutture ospedaliere pubbliche prive delle migliori tecnologie disponibili. Il payback, è bene evidenziarlo, oltre al problema della continuità di approvvigionamento dei dispositivi, porterebbe anche ad un peggioramento significativo nella qualità innovativa delle tecnologie. E non so immaginare come trattenere un medico in una struttura che lo costringe a lavorare con tecnologia di serie B.

Passiamo ai cittadini.
Un servizio sanitario nazionale così depotenziato, con tecnologie innovative che non sono messe a disposizione degli ospedali pubblici e un parco tecnologico obsoleto (su cui Confindustria dispositivi ha fornito un desolante quadro di dettaglio, ndr), rischia di andare a impattare negativamente sulle fasce più deboli della popolazione, quelle cioè che non possono scegliere di curarsi in strutture private all’avanguardia. Genereremmo così una grave diseguaglianza nell’accesso alla salute.

Scattiamo una fotografia: l’accordo non si trova. Cosa accade in Italia nei prossimi 3 anni?
Si profilerebbe un enorme fallimento. Io ricordo sempre che il servizio sanitario nazionale è la più grande infrastruttura del nostro Paese. Un sistema che ci è stato sempre invidiato da molti Paesi all’estero e che nel corso degli ultimi anni abbiamo progressivamente smontato.

Per anni abbiamo parlato di un ‘made in Italy’ medicale come di una eccellenza da valorizzare. Quale la potenzialità reale del comparto italiano (che rischiamo di perdere)?
Uno dei grandi problemi oggi è l’assenza di politiche atte a valorizzarlo. Non mi riferisco tanto al Governo attuale quanto ad una tendenza che perdura da molti anni. I cittadini si sono fatti ‘anestetizzare’ dal fatto che esiste un servizio sanitario universalistico e disponibile per tutti e non si sono purtroppo resi conto che sì, questo esiste, ma che è sempre meno capace di fornire qualità di cura. Qui vorrei citare un dato interessante: noi siamo tra i popoli più longevi al mondo, dopo il Giappone, ma crolliamo nelle classifiche rispetto alla qualità di gestione dei nostri anziani. Tanto è vero che la qualità di vita degli ultimi anni per i nostri cittadini è la peggiore tra i Paesi più sviluppati.

Appare quindi evidente che questa eccellenza di cui lei parla è andata prosciugandosi nel corso degli anni.
Possiamo però ripartire un punto fermo: quella dei dispositivi medici rappresenta una reale opportunità per il nostro Paese perché incarna, ancora oggi, una grande eccellenza italiana, ricordiamo che il comparto farmaceutico italiano è il primo, o secondo, produttore europeo a seconda degli anni. Abbiamo quindi tutte le carte in regola per fare un’ottima produzione, oltretutto a basso impatto energetico, di altissima competenza e grande qualità. Tutte caratteristiche chiave che consentirebbero al comparto di diventare un motore trainante di sviluppo economico/occupazionale per il Paese e invece il colpo del payback e l’assenza di politiche di sviluppo industriale specifiche, finiscono oggi per limitarne le prospettive.

E questo, lo ricordiamo ancora una volta, ha una ricaduta sulle prestazioni del Ssn?
Certo. Ho più volte ricordato che l’industria rende disponibile l’innovazione su larga scala ai cittadini. Se pensassimo ad un’industria attiva nel campo delle scienze della vita, capace di rendere l’innovazione disponibile per prima, tutti i servizi agli italiani sarebbero più efficienti: gli ospedali sarebbero più moderni e avremmo una maggiore sostenibilità anche a lungo termine perché è innegabile che le ricadute di una ‘cattiva salute’ sono non solo un problema etico e sociale, ma anche economico.

Chiedete un dialogo con il Governo, ieri siete stati ascoltati in Parlamento e vi siete rivolti anche all’Ue. Che tempistiche abbiamo per scongiurare il peggio? E, ci sono altre carte da giocare?
Ieri (giovedì 13 aprile, ndr) siamo stati ascoltati sia al Ministero che in Parlamento, a Commissioni congiunte di Senato e Camera, e quel che abbiamo rappresentato è una situazione su cui occorre intervenire. Peraltro, ad oggi il Governo ha varato una serie di misure (osservatorio sui prezzi e la riforma del codice degli appalti, tra gli altri, ndr) che gli conferiscono molti strumenti atti a gestire la spesa. Io quindi resto cautamente ottimista sul risultato di un confronto costruttivo come quello che stiamo portando avanti. La trama si sta dipanando. Il Governo ha ereditato un problema oggettivo cui ha già messo mano con un primo provvedimento, quello dello sconto. Esiste a mio avviso la lucida consapevolezza da parte dell’attuale Governo che il recupero delle cifre 2015/2018 è assai improbabile alla luce dei ricorsi, degli errori e dei margini di incostituzionalità che si ravvedono nell’impianto normativo stesso. Quanto proposto fino ad oggi, uno sforzo di cui in qualche modo ringraziamo, va letto quindi più come un tentativo di soccorso alle Regioni, che una strada utile a risolvere il problema. Quello che continuiamo a chiedere è quindi la cancellazione del provvedimento per evirare, tra le altre cose, quello che io chiamo “effetto palla di neve”: più il tempo passa più le dimensioni del problema tendono progressivamente, e inesorabilmente, ad aumentare rendendone intrinsecamente più difficile la soluzione. Il passo successivo è la richiesta di apertura di una procedura di infrazione al sistema paese Italia da parte dell’Ue sulla base del fatto che il sistema payback non ha equivalenti nel resto del mondo e solleva, soprattutto in Europa, un problema sulla libera circolazione delle merci e sull’accesso al mercato.

Il provvedimento del Governo rimanda a giugno i pagamenti. Ci sono ancora tre mesi per scongiurare il peggio quindi?
Sì. Abbiamo tre mesi per discutere, e lo stiamo facendo. Io sono convinto che il Governo non abbia alcun interesse ad arrivare alle prime pronunce del Tar. Questi mesi quindi saranno fondamentali e non a caso sta avvenendo oggi una intensificazione dei contatti per risolvere il passato e pianificare il futuro così come peraltro ci eravamo ripromessi di fare al termine della pandemia covid, quando immaginavamo addirittura di rafforzare il nostro sistema produttivo di dispositivi medici per non essere più così dipendenti dall’estero e di riconoscere a pieno titolo la salute come valore fondamentale per la crescita del Paese. Penso che questo Governo abbia la grande responsabilità, e soprattutto l’opportunità, di risolvere un problema e fare qualcosa di concreto scongiurando un nuovo colpo all’equità di accesso alle cure.Chiudiamo con un elemento positivo?
Il fatto che sembra sia cambiata la narrazione. Non vedo, come avveniva invece purtroppo in passato, una presa di posizione ideologica sulla questione. Non si parla più di un’industria ricca che genera extra profitti e che pertanto può pagare per tutti. Si è invece pienamente consapevoli del valore e delle difficoltà del comparto (pensi che l’Italia è arrivata ad una spesa di dispositivi medici pro capite a dir poco vergognosa, molto al di sotto della media europea). Non esiste quindi una spesa fuori controllo, ma esiste, questo sì, un problema di definanziamento del settore e di reperimento risorse. Risorse che però, sia chiaro a tutti, non si possono chiedere all’industria. (fonte: Panorama della Sanità)