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Codice degli appalti tra PNRR e cultura dei risultati

“di Enrico Conte”. Uno dei punti centrali del nuovo Codice degli appalti è l’introduzione del principio del risultato. Ma lo prevedevano anche le varie riforme amministrative rimaste incompiute. Più attenzione andrebbe riservata ai fenomeni di “cattura del regolatore”. 

Perché una riforma del Codice degli appalti 

“A parlar male comincia tu”: parafrasando una nota canzone di un’amatissima soubrette, si può riassumere il senso delle tante critiche che sono state rivolte al Codice appalti e concessioni del 2016, oggetto di una profonda revisione da parte di una riforma in corso di approvazione, una delle più attese tra quelle previste dal Piano nazionale di ripresa e resilienza. 

Il testo, elaborato dal Consiglio di stato e, con alcune modifiche, fatto proprio dal governo, presenta elementi di forte discontinuità con il precedente, a partire dalla riduzione dell’assetto regolatorio (e minor rinvio ad atti regolamentari), dalla promozione della co-progettazione con i soggetti del terzo settore, dal suo essere preceduto da una serie di principi generali che ne fanno un Codice aperto all’interpretazione delle stazioni appaltanti, secondo i criteri del risultato, della fiducia reciproca, dell’accesso al mercato. 

Il principio del risultato 

Tra questi principi, spicca quello del risultato, da collegare con l’autonomia contrattuale delle pubbliche amministrazioni (articolo 8), invero acquisita da tempo e ritenuta dalla dottrina riconducibile all’articolo 11 del codice civile, che tratta delle prerogative delle persone giuridiche pubbliche, e rintracciabile nel principio di libera organizzazione delle procedure di scelta dei concessionari (articolo 166 Codice vigente). 

Sarà la sua applicazione a confermare se questi assunti, posti come un hegeliano dover essere delle Pa, verranno tradotti in prassi operative per le quali, stando sempre al nuovo testo, sembra volersi dare grande importanza alla discrezionalità e alla regola del caso concreto, secondo logiche di buona amministrazione e di buona fede. 

Il punto è che, di risultati, in tutti i settori della Pa, si parla da 30 anni, da quando i governi con Carlo Azeglio Ciampi, Sabino Cassese e Franco Bassanini introdussero, accanto alla privatizzazione del rapporto di lavoro e a un incisivo intervento sul piano organizzativo (principio della distinzione tra compiti di indirizzo e controllo degli organi politici e compiti di gestione degli organi tecnici), la “responsabilità da risultato” per la dirigenza (articoli 4 e 20 del decreto legislativo n. 165 del 2001) nonché regole, per lo più formali e giuridiche, che hanno disciplinato il sistema della valutazione delle performance, introdotto dal ministro Renato Brunetta con la legge n. 15 del 2009. 

Detto ciò, è un po’ come se, adesso, si volessero scaricare sul Codice appalti, e sui settori che nelle Pa si occupano di contratti pubblici assurti al ruolo di capri espiatori, trent’anni di riforme solo parzialmente compiute nel settore pubblico e che avrebbero richiesto continuità di governo nelle politiche di disciplina della Pa, volontà riformatrice duratura, visione coerente e sistematica. 

L’assenza di tutto ciò si è tradotta in alti e bassi di attenzione, in regole che hanno rinviato ad altre regole (anche di natura contrattuale), in una misurazione dei risultati impostata in maniera formale e burocratica, priva di adeguati indirizzi e della loro verifica (controllo). 

Il controllo doveva essere un compito, come si esprime l’articolo 20 del Dlgs n. 165 del 2001, sia del ministro che del governo per le figure di vertice, secondo uno schema valido, a cascata, anche per altri livelli di governo (regionale e locale), e avrebbe dovuto portare a sviluppare, come condizione di partenza, l’attitudine delle strutture tecniche a interpretare i bisogni e a impostare preventivamente programmi e obiettivi. 

La qualità di un risultato (da controllare) non costituisce una profezia che si autoavvera, è data piuttosto, dal modo in cui si imposta la sua genesi (programmazione). 

Ma adesso c’è il Pnrr e bisogna fare in fretta e bene, e poi anche dimostrare alla Commissione europea che l’Italia ci crede. 

“Il principio del risultato dell’affidamento del contratto e della sua esecuzione, con la massima tempestività e il miglior rapporto possibile tra qualità e prezzo”, presente adesso nell’articolo 1 del nuovo Codice come compito da perseguire da parte delle stazioni appaltanti, per non restare un mero adempimento, dovrebbe pertanto intendersi non tanto, e solo, quale tensione alla stipula di un contratto pubblico, quanto come orientamento a generare valore aggiunto, quello riconducibile alle prestazioni da eseguire. 

Ecco allora la necessità di entrare nel merito delle decisioni pubbliche, di non considerarle, come molto spesso accade, di mera spettanza politica, di non restare burocraticamente indifferenti ai fini dell’azione amministrativa, che vanno invece processualmente concordati e condivisi. 

Ed ecco allora la necessità di accompagnare la conoscenza del Codice con quella dei contenuti della buona amministrazione quali, per esempio, quelli della rigenerazione urbana, della prevenzione del dissesto idrogeologico, dell’efficienza energetica e delle nuove figure contrattuali, del Ppp (partenariato pubblico-privato), del project financing, delle misure per fronteggiare il riscaldamento climatico, della tutela dell’ambiente entrata nella Costituzione, della riduzione del consumo del suolo, della rifunzionalizzazione di immobili abbandonati e via dicendo, temi che rappresentano la chiusura del cerchio di una Pa (parte politica e parte tecnica) che si muova all’unisono, in un contesto fattuale dato, e che non si limiti ad applicare norme avulse dalla realtà, ma che sia orientata ad assumere la responsabilità di un programma da realizzare. Cosa che richiede di agire sul livello di preparazione culturale dei funzionari sì, ma anche del ceto politico. 

Il ritardo nella modernizzazione dello Stato, del quale ha parlato recentemente Sabino Cassese, non costituisce allora una mera formula, ma un modo di porsi, una postura si potrebbe dire, di ogni Pa che si voglia misurare con problemi da risolvere, e con i temi dell’innovazione e del cambiamento. 

La formazione 

Resta il nodo della formazione necessaria per accompagnare il nuovo Codice, puntando, più che sulle regole procedurali, sull’intreccio tra opzioni programmatiche e istituti contrattuali in esso previsti e su di una formazione specialistica che non risulti disinteressata nei confronti dei contenuti dell’attività di alta amministrazione, autoreferenziata rispetto a quegli impatti e a quelle priorità che orientano l’azione di governo. 

Si aggiunga che nel nuovo testo sembrerebbe mancare all’appello la possibilità di utilizzare una parte delle risorse dei quadri di spesa dei contratti pubblici per attivare dottorati di alta specializzazione (previsione del vigente Codice ripresa dal Pnrr che ha finanziato i dottorati comunali), e che consentiva di articolare con le locali università borse di ricerca-azione e percorsi per la formazione di aspiranti funzionari, per legare il mondo della ricerca a quello delle imprese e delle Pa più portate all’innovazione e al cambiamento di paradigmi culturali. 

I rischi 

Ancora irrisolto resta il nodo della molteplicità delle stazioni appaltanti (trentamila sul territorio nazionale), circostanza che entra in contrasto con il dichiarato intento di disporre di centri altamente qualificati e che viene confermata dalla possibilità, per tutti i comuni, di affidare direttamente, senza gara, lavori e servizi fino a 500mila euro. 

Il Codice sarà in vigore nella primavera del 2023 quando si entrerà nel vivo delle gare per i progetti ammessi al Pnrr, in un quadro di procedure avviate nel 2022 e che hanno raggiunto il valore di 51 miliardi (70 per cento in più del 2021). Ma se si tiene presente che questo ritmo ha interessato i concessionari di reti e di infrastrutture (Fs) mentre, per i comuni, i bandi hanno registrato performance pari a quelle del 2021 (- 1 per cento), con gare e aggiudicazioni tutte da fare (vedi Irpet Regione Toscana). 

Non va taciuta infine la necessità di riporre particolare attenzione alla integrità di chi, a vario titolo, si occuperà delle scelte discrezionali. Sarà richiesto un supplemento di vigilanza interna e di cittadinanza attiva, sugli incarichi affidati (con rotazione?) ai responsabili di procedimento e ai loro curricula, ma anche sulla correttezza degli amministratori, non dimenticando che il fenomeno della “cattura del regolatore” da parte di operatori economici, importanti e agguerriti, non riguarda solo il Parlamento europeo, ma rappresenta un rischio sempre in agguato nelle realtà storicamente permeabili, o che muovono ingenti risorse economiche.   (fonte:Lavoce.info) 

di Enrico Conte