L’accesso secondo il nuovo Codice e l’onere di motivazione del giudice
Avv. Maria Ida Tenuta
La recente sentenza del Consiglio di Stato n. 4422 del 2 maggio scorso si è occupata dell’art. 36 del d. lgs. n. 36 del 2023 recante “Norme procedimentali e processuali in tema di accesso” nella parte in cui prevede nell’ambito del giudizio sull’accesso l’ammissibilità di tecniche motivazionali finalizzate a semplificare la fase di stesura della motivazione della sentenza.
Come noto, l’art. 36 cit. stabilisce che l’offerta dell’operatore economico risultato aggiudicatario, i verbali di gara e gli atti, i dati e le informazioni presupposti all’aggiudicazione sono resi disponibili, attraverso la piattaforma di approvvigionamento digitale (disciplinata dall’art. 25 dello stesso D.Lgs. 36/2023), utilizzata dalla stazione appaltante o dall’ente concedente, a tutti i candidati e offerenti non definitivamente esclusi contestualmente alla comunicazione digitale dell’aggiudicazione.
Nella comunicazione dell’aggiudicazione, la stazione appaltante o l’ente concedente dà anche atto delle decisioni assunte sulle eventuali richieste di oscuramento di parti delle offerte.
Tali decisioni sono impugnabili ai sensi dell’articolo 116 del codice del processo amministrativo, con ricorso notificato e depositato entro dieci giorni dalla comunicazione digitale della aggiudicazione.
Il ricorso sull’accesso è fissato d’ufficio in udienza in camera di consiglio nel rispetto di termini pari alla metà di quelli di cui all’articolo 55 del codice del processo amministrativo ed è deciso alla medesima udienza con sentenza in forma semplificata, da pubblicarsi entro cinque giorni dall’udienza di discussione, e la cui motivazione può consistere anche in un mero richiamo delle argomentazioni contenute negli scritti delle parti che il giudice ha inteso accogliere e fare proprie.
Orbene, nel caso di specie l’appellante aveva impugnato la sentenza di primo grado censurando, tra gli altri motivi di gravame, il carattere apparente della motivazione in quanto copiata, per ampi stralci, dalle memorie difensive che la parte appellata aveva prodotto nel corso del primo grado di giudizio.
Il Consiglio di Stato ha rigettato l’appello, ritenendo infondata tale censura.
Secondo il Collegio, con riguardo all’onere motivazionale delle sentenze, il Codice del processo non esige l’originalità delle modalità espositive né vieta l’uso del contenuto di altri scritti bensì nel codice si richiede, piuttosto, che una motivazione esista, sia chiara, comprensibile, coerente (pertanto non solo apparente); in nessun punto del codice risulta richiesta, invece, una motivazione espressa con modalità espositive “inedite”.
A sostegno di tale assunto il Consiglio di Stato richiama la nuova disciplina dell’art. 36 del D.Lgs. 36/2023 che conferma un trend legislativo orientato ad assicurare la massima celerità del giudizio, attraverso il ricorso a strumenti di semplificazione tra cui una motivazione della decisione giudiziale che richiama gli scritti difensivi di una delle parti del giudizio.
In particolare, l’art. 36 comma 7 cit. prevede testualmente che: “Il ricorso … è fissato d’ufficio in udienza in camera di consiglio nel rispetto di termini pari alla metà di quelli di cui all’articolo 55 del codice di cui all’allegato I al decreto legislativo n. 104 del 2010 ed è deciso alla medesima udienza con sentenza in forma semplificata, da pubblicarsi entro cinque giorni dall’udienza di discussione, e la cui motivazione può consistere anche in un mero richiamo delle argomentazioni contenute negli scritti delle parti che il giudice ha inteso accogliere e fare proprie.”
Secondo il Collegio può dunque desumersi il tendenziale consolidarsi di un principio di portata generale secondo cui “… nel bilanciamento tra esigenze di garanzia e quelle del buon andamento del processo, inteso come forma necessaria del giudizio e quindi dell’accertamento giudiziale, le esigenze di celerità e quelle proprie dell’amministrazione c.d. di risultato, giustificano l’ammissibilità di tecniche motivazionali finalizzate a semplificare la fase di stesura della motivazione anche mediante il solo il rinvio alle argomentazioni delle parti che il giudice, condividendole, ritenga di far proprie, assumendole al fine di dare evidenza all’iter logico giuridico che ha condotto alla decisione”.
L’unico limite a tale possibilità è rappresentato dalla necessità che la motivazione, in tal modo predisposta mediante l’ausilio diretto del contributo ricostruttivo ed interpretativo delle parti, non sia una motivazione apparente ma realmente idonea a dar conto delle ragioni giuridiche della decisione.
Il Collegio afferma quindi che: “Non si tratta di acritica ricezione di argomentazioni altrui ma di una mera semplificazione del processo di giustificazione formale della decisione giudiziale assunta, che presuppone, in ogni caso, un attento vaglio critico ed una accurata selezione degli argomenti giuridici da comporre in un discorso argomentativo chiaro, esaustivo, rispetto a tutte le questioni poste e trattate dalle parti e, soprattutto, logico, nella connessione dei fatti accertati e delle ragioni giuridiche addotte”.
La sentenza in commento risulta particolarmente interessante in quanto fornisce una prima lettura delle disposizioni del nuovo codice appalti in tema di accesso confermando che il D.Lgs. 36/2023 sembra essere caratterizzato dal file rouge del raggiungimento del principio di risultato, di cui all’art. 1 del Dlgs. cit., finanche nell’ambito del correlato giudizio sull’accesso.
L’ammissibilità di tecniche motivazionali finalizzate a semplificare la fase di stesura della motivazione della sentenza sono quindi strumentali ad assicurare il risultato in modo celere ed efficiente ossia a far sì che l’affidamento e l’esecuzione del contratto si realizzino con la massima tempestività (oltre che con il migliore rapporto possibile tra qualità e prezzo).
Tale esigenza di celerità, seppur fondamentale, deve tener conto, tuttavia, degli altri interessi in gioco sussistenti nell’ambito del giudizio.
Come ben ricordato dalla sentenza in commento, l’applicazione dell’art. 36, comma 7 cit. comporta quindi che l’onere di motivazione in parola deve essere sempre il frutto del bilanciamento tra le esigenze di garanzia e quelle del buon andamento (e celerità) del processo.
Tale bilanciamento può essere assicurato quindi attraverso una motivazione che nel rinviare alle argomentazioni di una delle due parti – in un’ottica di celerità e semplificazione – risulti comunque idonea a dar conto delle ragioni giuridiche della decisione, al fine di non incorrere nella c.d. “motivazione apparente”.
Sulla legittimità della revoca dell’aggiudicazione se l’aggiudicatario formula riserve sul contratto
Avv. Maria Ida Tenuta
Il Consiglio di Stato con la sentenza del 28 febbraio scorso n.2043 si è occupato della possibilità dell’aggiudicatario di formulare riserve sul contratto prima della sottoscrizione e della legittimità della revoca disposta, per l’effetto, dalla stazione appaltante.
Come noto, l’art. 21 quinquies l. 7 agosto 1990, n. 241, prevede che “Per sopravvenuti motivi di pubblico interesse ovvero nel caso di mutamento della situazione di fatto non prevedibile al momento dell’adozione del provvedimento, o, salvo che per i provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici, di nuova valutazione dell’interesse pubblico originario, il provvedimento amministrativo ad efficacia durevole può essere revocato da parte dell’organo che lo ha emanato”.
Secondo la giurisprudenza, in materia di appalti pubblici le ragioni in grado di supportare la revoca legittima dell’aggiudicazione sono state variamente individuate e tre sono, specialmente, le fattispecie ricorrenti: a) revoca per sopravvenuta non corrispondenza dell’appalto alle esigenze dell’amministrazione; b) revoca per sopravvenuta indisponibilità di risorse finanziarie ovvero per sopravvenuta non convenienza economica dell’appalto (fra le tante, Cons. Stato, sez. V, 21 aprile 2016, n. 1599, Sez. III, 29 luglio 2015, n. 3748); c) revoca per inidoneità della prestazione descritta nella lex specialis a soddisfare le esigenze contrattuali che hanno determinato l’avvio della procedura (sulla quale, ampiamente, Cons. Stato, sez. III, 29 novembre 2016, n. 5026).
La giurisprudenza annovera tra i “sopravvenuti motivi di pubblico interesse” anche comportamenti scorretti dell’aggiudicatario che si siano manifestati successivamente all’aggiudicazione definitiva (cfr. Cons. Stato n. 120/2018; ibidem Cons. Stato, sez. V, 12 giugno 2017, n. 2804; Cons. Stato, sez. V, 11 luglio 2016, n. 3054; Cons. Stato, sez. IV, 20 gennaio 2015, n. 143, e TAR Liguria, sez. II, 27 gennaio 2017, n. 55).
In detti casi la revoca assume quella particolare connotazione di revoca – sanzione, poiché la caducazione degli effetti del provvedimento è giustificata da condotte scorrette del privato beneficiario di precedente provvedimento favorevole dell’amministrazione; tuttavia si tratta pur sempre di “motivi di pubblico interesse”, successivi al provvedimento favorevole (o successivamente conosciuti dalla stazione appaltante, e per questo “sopravvenuti”) che giustificano la revoca.
La particolarità di tale revoca consiste nel fatto che l’amministrazione non è tenuta a soppesare l’affidamento maturato dal privato sul provvedimento a sé favorevole e, d’altra parte, non ricorrono pregiudizi imputabili all’amministrazione e ristorabili mediante indennizzo poiché ogni conseguenza, ivi comprese eventuali perdite economiche, è imputabile esclusivamente alla condotta del privato (non dando luogo a responsabilità dell’amministrazione, neppure da atto lecito, Cons. Stato 120/2018)
La sentenza in commento si inserisce nel solco giurisprudenziale indicato.
In particolare l’appellante ha impugnato la sentenza con la quale il Giudice di primo grado aveva respinto il suo ricorso volto all’annullamento del provvedimento con cui la stazione appaltante aveva revocato, ai sensi dell’art. 21quinquies della legge n. 241/1990, l’aggiudicazione del contratto pubblico per mancato adempimento dell’obbligo di stipulazione del contratto per fatto e colpa dell’aggiudicatario.
In particolare, il TAR ha ritenuto legittima la revoca dell’aggiudicazione in quanto l’appellante aveva trasmesso non il contratto firmato ma una nota con osservazioni preliminari alla stipula del contratto di appalto e successivamente, in risposta alla diffida della stazione appaltante a stipulare il contratto, aveva allegato al contratto sottoscritto una nota di puntualizzazioni che mettevano in dubbio la corretta esecuzione degli obblighi contrattuali.
Secondo l’appellante le osservazioni inviate non avrebbero inciso sulla formazione della volontà negoziale delle parti, e quindi sulla conclusione del contratto, in quanto contenuti in files separati rispetto al contratto pubblico, che comunque sarebbe stato sottoscritto dall’aggiudicataria.
Il Consiglio di Stato ha rigettato l’appello.
Il Collegio ha ritenuto che le osservazioni formulate dall’aggiudicataria, anche se inviate con note separate ma allegate e correlate al contratto sottoscritto, fossero delle proposte volte a modificare illegittimamente aspetti essenziali del contratto concernenti il contenuto delle prestazioni che l’aggiudicataria si era impegnata ad eseguire con l’offerta risultata essere aggiudicataria al termine della selezione concorsuale.
Nelle dette osservazioni l’aggiudicatario rappresentava infatti di non essere in grado di eseguire la prestazione alle condizioni aggiudicate con il ribasso offerto. In particolare aveva rilevato che alcuni profili, tecnici ed economici non modificati avrebbero comportato l’impossibilità di eseguire le lavorazioni affidate, conseguendone la richiesta di voler rivedere i prezzi di contratto al fine di riequilibrare i termini dell’appalto, riconducendone ad equità l’importo e così rendendo sostenibile l’esecuzione dei relativi lavori.
In particolare, il Collegio ha statuito che: “Del tutto correttamente l’Amministrazione e il TAR hanno ritenuto nella specie che le “osservazioni preliminari” che avevano accompagnato la sottoscrizione del contratto fossero tali da far considerare non perfezionato il sinallagma contrattuale, considerato che in esse era chiaramente rappresentata la “impossibilità” di dar corso all’esecuzione dei lavori in mancanza delle “modifiche contrattuali richieste”, configurandosi una richiesta di mutamento del regolamento contrattuale rispetto a quello che fin dal momento dell’offerta l’impresa si era obbligata ad accettare, con la conseguenza chi si era in presenza non di un’accettazione ma di una controproposta.
Dalle pregresse considerazioni discende la legittima – ed anzi doverosa – applicazione degli strumenti di autotutela attivabili, in caso di mancata sottoscrizione del contratto da parte dell’aggiudicatario, a tutela dell’interesse pubblico al rispetto dei principi di imparzialità e buon andamento dell’amministrazione.”
In conclusione, è legittima la revoca dell’aggiudicazione per mancato adempimento dell’obbligo di stipulazione del contratto per fatto e colpa dell’aggiudicatario nel caso in cui l’aggiudicatario abbia proposto di modificare gli aspetti essenziali del contratto o di esprimere riserve sul suo contenuto; ed infatti a fronte del principio di immodificabilità dei contratti pubblici, la revoca in parola risulta essere posta al fine di evitare che la prestazione erogata non sia in linea con i parametri qualitativi selezionati nonché è volta a garantire il rispetto dei principi di imparzialità e buon andamento dell’Amministrazione.
Soccorso istruttorio e soccorso procedimentale: i principi fondamentali e le differenze
Avv. Maria Ida Tenuta
La recente sentenza del Consiglio di Stato del 9 gennaio 2023 n. 290 individua i principi fondamentali e le differenze che caratterizzano il soccorso istruttorio e il soccorso procedimentale.
Come noto, l’art. 83, comma 9, del d.lgs. n. 50 del 2016 delinea l’ambito applicativo del soccorso istruttorio stabilendo che l’istituto opera per tutte le carenze di qualsiasi elemento formale della domanda e, in particolare, per i casi di mancanza, incompletezza e di ogni altra irregolarità essenziale degli elementi e del documento di gara unico europeo, “…con esclusione di quelle (carenze) afferenti all’offerta economica ed all’offerta tecnica”.
Sono sottratte, quindi, all’operatività dell’istituto le carenze e irregolarità che afferiscono all’offerta economica e all’offerta tecnica, nonché alle carenze della documentazione che non consentono l’individuazione del contenuto o del soggetto responsabile della stessa. È quindi consentito alle amministrazioni aggiudicatrici di chiedere agli operatori economici di presentare, integrare, chiarire o completare le informazioni o la documentazione ove incomplete o non corrette, purché questo venga fatto entro un termine adeguato. Resta fermo che il mancato possesso (sostanziale) dei prescritti requisiti di partecipazione (alla data di presentazione della domanda) non è sanabile e determina l’esclusione dalla procedura di gara (Cons. Stato, V, 22 ottobre 2018, n. 6005).
Il rimedio ha come finalità, quindi, quella di consentire l’integrazione della documentazione già prodotta in gara, ma ritenuta dalla stazione appaltante incompleta o irregolare sotto un profilo formale, e non anche di consentire all’offerente di formare atti in data successiva a quella di scadenza del termine di presentazione delle offerte, pena la violazione dei principi di immodificabilità e segretezza dell’offerta, di imparzialità e di par condicio delle imprese concorrenti. Per l’effetto, vanno ritenute ammissibili solo quelle integrazioni documentali che non riguardino elementi essenziali dell’offerta (cfr. Consiglio di Stato, n. 1030/2019 e Cons. Stato, n. 5140/2020).
Con riferimento all’offerta tecnica e all’offerta economica, la giurisprudenza ha affermato che sussiste la possibilità di ricorrere al diverso istituto del “soccorso procedimentale”, che risulta sottoposto, tuttavia, a regole stringenti, al fine di non eludere il divieto sancito dal suddetto art. 83, comma 9, D.Lgs. 50/2016, che è volto a tutelare la par condicio competitorum.
In particolare, per la giurisprudenza sussiste la possibilità che la stazione appaltante possa richiedere delucidazioni in merito all’offerta nonché possa consentire la correzione di meri errori materiali inficianti l’offerta, a condizione che l’effettiva volontà negoziale dell’impresa partecipante alla gara sia individuabile in modo certo nell’offerta presentata, senza margini di opacità o ambiguità, così che si possa giungere a esiti univoci circa la portata dell’impegno ivi assunto (ex multis Consiglio di Stato sez. V, 04/10/2022, n. 8481).
La sentenza in commento si inserisce nel solco giurisprudenziale indicato chiarendo la differenza tra soccorso istruttorio e soccorso procedimentale, individuando le rispettive caratteristiche e i limiti applicativi.
Nel caso in esame, nell’ambito di un appalto pubblico di servizi, il Giudice di primo grado aveva annullato l’esclusione di una concorrente che non aveva prodotto nell’offerta tecnica uno degli allegati richiesti dalla disciplina di gara, ritenendo che, trattandosi di un errore materiale, avrebbe dovuto essere oggetto di soccorso “istruttorio” (rectius procedimentale) ossia la stazione appaltante avrebbe dovuto richiedere chiarimenti in merito e consentire la correzione dell’errore materiale nell’offerta tecnica.
La sentenza è stata appellata da un altro concorrente che ha ritenuto non sussistenti i presupposti per l’applicazione del detto istituto in forza del limite sancito dall’art. 83, comma 9, cit. in ordine all’offerta tecnica.
Il Consiglio di Stato ha respinto l’appello, confermando la sentenza di primo grado, ma adducendo una diversa motivazione, improntata proprio sulla differenza tra soccorso istruttorio e soccorso procedimentale.
In particolare, secondo il Collegio “prima di esaminare detti motivi, giova richiamare i principi elaborati dalla giurisprudenza amministrativa in tema di soccorso istruttorio e di soccorso procedimentale, onde comprendere anche la distinzione fra i due tipo di soccorso, i cui profili sembrano essere stati sovrapposti nella sentenza appellata, sebbene dalla sentenza di ottemperanza si evinca per contro claris verbis che il giudice di prime cure abbia voluto disporre un mero soccorso procedimentale, ammissibile anche sull’offerta tecnica, nel senso di seguito precisato…
Invero, alla luce della giurisprudenza anche recente di questo Consiglio di Stato (III, 21/03/2022 n. 2003) la carenza dell’offerta economica e tecnica non può essere in alcun modo sanata attraverso il soccorso istruttorio, possibilità che in ordine a eventuali profili di carenza e inintelligibilità dell’offerta tecnica ed economica è strettamente presidiata e limitata dall’art. 83 comma 9 del D.Lgs. n. 50 del 2016, a tenore del quale il soccorso istruttorio è consentito per porre rimedio alle carenze e irregolarità delle dichiarazioni e dei documenti dei concorrenti “… con esclusione di quelle afferenti all’offerta economica e all’offerta tecnica …”
Il Consiglio di Stato ha quindi precisato che: “Il rimedio – diverso dal “soccorso istruttorio” di cui all’art. 83 comma 9 d. lgs. 18 aprile 2016 n. 50, che non potrebbe riguardare né il profilo economico né quello tecnico dell’offerta (tra altre, Cons. Stato, III, 2 febbraio 2021, n. 1225; V, 27 gennaio 2020, n. 680, che rammenta che, nei pareri nn. 855 del 21 marzo 2016 e 782 del 22 marzo 2017 relativi allo schema del Codice degli appalti pubblici e del “correttivo” di cui al d.lgs. 56/2017 resi dalla Commissione speciale, questo Consiglio di Stato ha espressamene sottolineato, in relazione all’art. 83, l’opportunità di conservare il “soccorso procedimentale” in caso di dubbi riguardanti “gli elementi essenziali dell’offerta tecnica ed economica”) – consiste nella possibilità di richiedere al concorrente di fornire chiarimenti volti a consentire l’interpretazione della sua offerta e a ricercare l’effettiva volontà dell’offerente, superando le eventuali ambiguità dell’offerta, ciò fermo il divieto di integrazione dell’offerta, senza attingere a fonti di conoscenza estranee alla stessa e a condizione di giungere a esiti certi circa la portata dell’impegno negoziale con essa assunta (Cons. Stato, III, 13 dicembre 2018, n. 7039; 3 agosto 2018, n. 4809; V, 27 aprile 2015, n. 2082; 22 ottobre 2014, n. 5196; 27 marzo 2013, n. 1487).
Il Collegio ha sottolineato, infatti, la necessità di individuare un “soccorso procedimentale”, nettamente distinto dal “soccorso istruttorio”, in virtù del quale possano essere richiesti, in caso di dubbi riguardanti gli elementi essenziali dell’offerta tecnica ed economica, chiarimenti al concorrente, fermo il divieto di integrazione dell’offerta, laddove i chiarimenti valgono a chiarire la portata dell’offerta.
Secondo il Collegio si tratta, in particolare, di quei chiarimenti che, per la giurisprudenza, sono ammessi, in quanto “…finalizzati a consentire l’interpretazione delle offerte e ricercare l’effettiva volontà dell’impresa partecipante alla gara, superandone le eventuali ambiguità, e a condizione di giungere a esiti certi circa la portata dell’impegno negoziale con esse assunte (Cons. Stato, V, 27 aprile 2015, n. 2082; 22 ottobre 2014, n. 5196; 27 marzo 2013, n. 1487).”
Ed infatti detta interpretazione relativa all’ammissibilità del soccorso procedimentale, volto a ricercare alla luce dei chiarimenti richiesti, la volontà negoziale dalla stessa offerta e non ab externo o tramite la produzione di nuovi documenti, è conforme a quanto previsto dalla Corte di giustizia dell’Unione Europea.
In particolare, secondo la Corte di giustizia una richiesta di chiarimenti in merito all’offerta tecnica non può ovviare alla mancanza di un documento o di un’informazione la cui comunicazione era richiesta dai documenti dell’appalto, se non nel caso in cui essi siano indispensabili per chiarimento dell’offerta o rettifica di un errore manifesto dell’offerta e sempre che non comportino modifiche tali da costituire, in realtà, una nuova offerta (Corte di giustizia dell’Unione Europea, Sez. VIII, 10 maggio 2017, nella causa C-131/16 Archus).
In conclusione, nel delineare il limiti e le differenze con il soccorso istruttorio, il Consiglio di Stato ha statuito l’esperibilità del soccorso procedimentale relativo all’offerta tecnica in presenza di un errore manifesto ma a condizione che l’effettiva volontà del partecipante sia desumibile da altri elementi dell’offerta stessa, coniugando, in tal modo, il principio della massima partecipazione con il principio della par condicio, che risulterebbe altrimenti vulnerato ove si consentisse al concorrente di integrare ex post un’offerta carente dei requisiti prescritti dalla lex specialis di gara.
Sulla possibilità di rinegoziazione delle clausole contrattuali nella fase intercorrente tra l’aggiudicazione e la stipula del contratto
a cura dell’avvocato Maria Ida Tenuta
La recente sentenza del TAR Sardegna n. 770 del 16 novembre scorso ha affrontato il tema della possibilità di “rinegoziare” il contenuto di alcune clausole contrattuali nella fase intercorrente tra l’aggiudicazione e il contratto, con particolare riferimento all’istanza di revisione prezzi.
In particolare, come noto, le modifiche previste dall’art. 106, comma 1, d.lgs. n. 50/2016 sono riferite ai “contratti”, dal che può dedursi che il contratto debba essere stato già stipulato, perché se ne possa prospettare una sua modifica.
La giurisprudenza prevalente ha affermato, quindi, che deve essere rigettata la domanda di modifica delle pattuizioni prima di procedere alla stipulazione del contratto.
Ed infatti, secondo tale indirizzo il principio di parità di trattamento e l’obbligo di trasparenza che ne deriva ostano a che, dopo l’aggiudicazione di un appalto pubblico, l’amministrazione aggiudicatrice e l’aggiudicatario apportino alle disposizioni di tale appalto modifiche tali che dette disposizioni presentino caratteristiche sostanzialmente diverse rispetto a quelle dell’appalto iniziale. È quanto avviene se le modifiche previste hanno per effetto o di estendere l’appalto, in modo considerevole, a elementi non previsti, o di alterare l’equilibrio economico contrattuale in favore dell’aggiudicatario, oppure ancora se tali modifiche sono atte a rimettere in discussione l’aggiudicazione dell’appalto, nel senso che, se esse fossero state previste nei documenti disciplinanti la procedura di aggiudicazione originaria, sarebbe stata accolta un’altra offerta oppure avrebbero potuto essere ammessi offerenti diversi (Consiglio di Stato, Sez. IV, 31/10/2022, n 9426 che richiama la sentenza del 19 giugno 2008, pressetext Nachrichtenagentur, C-454/06, EU:C:2008:351, punti da 34 a 37).
Secondo tale indirizzo l’istanza di revisione del prezzo è stata formulata dall’impresa aggiudicataria prima della stipulazione del contratto, ossia in un momento in cui, non essendo ancora in essere alcun rapporto contrattuale, non era giuridicamente ipotizzabile né ammissibile alcuna ipotesi di revisione del prezzo, che per sua natura presuppone un contratto (ad esecuzione continuata e periodica) già in corso.
E così come nel corso del rapporto contrattuale l’impresa appaltatrice è tutelata, in caso di un esorbitante aumento dei costi del servizio, dall’istituto della revisione del prezzo (ove previsto dagli atti di gara) ovvero dalla possibilità di esperire i rimedi civilistici di risoluzione del vincolo sinallagmatico, nel diverso caso in cui l’evento imprevisto e imprevedibile si verifichi prima della stipulazione del contratto, l’impresa aggiudicataria sarebbe tutelata, quindi, con la possibilità di rifiutare la sottoscrizione del contratto, una volta cessata la vincolatività della propria offerta (T.A.R. Lombardia, Brescia, 10 marzo 2022, n. 239; in termini anche T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. II, 10.06.2022, n. 1343).
In buona sostanza, tale tesi esclude, dunque, l’ammissibilità dell’applicazione analogica dell’istituto previsto della revisione prezzi previsto prima dall’art. 115 del D.lgs. n. 163/2006 ed oggi disciplinato dall’art. 106 del D.lgs. n. 50/2016, ad un momento antecedente alla stipulazione del contratto, perché lo spazio che precede la stipulazione sarebbe già pienamente regolato dai principi dell’evidenza pubblica e della par condicio tra concorrenti, nonché dell’immodificabilità dell’offerta, i quali non consentirebbero alcun cambiamento dell’oggetto dell’appalto o del contenuto della proposta del privato (cfr. T.A.R. Lazio, Roma, Sez. III, 27 novembre 2017, n. 11732).
Si è formato, peraltro, un diverso indirizzo giurisprudenziale che ha ritenuto, al contrario, valorizzando la ratio dell’istituto in esame, che esso sia ascrivibile, nel suo complesso, sia all’esigenza di governare le sopravvenienze contrattuali sia a quella di evitare vere e proprie forme di diseconomia procedimentale (T.A.R. Piemonte, Sez. I, 28 giugno 2021, n. 667 e T.A.R. Toscana, Sez. I, 25 febbraio 2022, n. 228).
In tal senso, secondo tale orientamento la legislazione in materia di appalti pubblici è sì ispirata al rispetto del principio di concorrenza, ma anche informata ai criteri di efficacia ed economicità, e anche come sia irragionevole ogni azzeramento di una procedura amministrativa in assenza di specifiche illegittimità che la affliggano, vieppiù nella particolare ipotesi in cui l’impresa sia rimasta “vittima” delle sopravvenienze.
Sotto altro profilo, si è poi rilevato che “la scelta dell’amministrazione di individuare i termini della necessaria rinegoziazione ancor prima di procedere alla stipulazione del contratto si configura in fondo come prudente, poiché, posto che la rinegoziazione implica ovviamente l’accordo della controparte, ove tale accordo non fosse stato raggiunto, si sarebbe rafforzata in capo all’amministrazione una possibilità di revoca fondata sulle sopravvenienze organizzative e su un ragionevole rispetto delle aspettative dell’aggiudicatario” (T.A.R. Piemonte, Sez. I, 28 giugno 2021, n. 667).
La sentenza del TAR Sardegna si inserisce nel solco giurisprudenziale indicato, aderendo alla seconda delle tue tesi prospettate dalla giurisprudenza.
La controversia esaminata dal Collegio riguarda la validità dell’art. 3 del contratto stipulato tra le parti, che, premesso l’ammontare dell’appalto, “salvo quanto previsto riguardo gli eventuali adeguamenti del canone, da riconoscere all’Appaltatore, di cui al presente contratti (a solo titolo esemplificativo e non esaustivo: maggiori utenze (…)”, prevede l’adeguamento del canone non solo in riferimento all’indice FOI, ma anche “in base al maggior costo del personale rispetto a quello vigente alla data di presentazione dell’offerta (come da Tabelle pubblicate dal Ministero del Lavoro – Novembre 2010)”.
Per il Comune resistente tale previsione contrattuale sarebbe nulla, in quanto contrastante con lo schema di contratto allegato all’aggiudicazione, che riprendeva il contenuto del Capitolato e limitava la revisione prezzi entro il limite di cui all’indice FOI; il contratto stipulato sarebbe nullo in parte qua, per contrasto anche con quanto previsto dall’art. 115 del D.lgs. n. 163/2006, ratione temporis applicabile, che prevede inderogabilmente la previsione di una clausola di revisione prezzi nel limite massimo dell’indice FOI, salva la ricorrenza di circostanze eccezionali ed imprevedibili, nonché perché, in tal modo, il contratto avrebbe sostanzialmente rinegoziato le condizioni poste a base della gara.
La ricorrente, invece, replica che “nella fattispecie non si discorre dell’adeguamento prezzi annuale (che è un evento fisiologico di ogni contratto d’appalto), bensì della determinazione del corrispettivo di base, che, in seguito ad una situazione patologica (la stipulazione del contratto a distanza di due anni dalla gara) non era più coerente, già al momento dell’avvio del servizio, con i costi del servizio messo in gara (perché, nelle more, era aumentato il numero di utenti da servire ed era aumentato, altresì, il costo del lavoro)”, risultando perciò inconferenti le considerazioni in merito all’insuperabilità dell’indice FOI.
Il TAR Sardegna ha accolto il ricorso.
In particolare, il TAR nel richiamare i due orientamenti giurisprudenziali sopra indicati, ha ritenuto di aderire al secondo indirizzo, ritenendo possibile, quindi, “rinegoziare” il contenuto di alcune clausole contrattuali nella fase intercorrente tra l’aggiudicazione e il contratto.
Il Collegio ha affermato di condividere altresì gli assunti dottrinali favorevoli a questa seconda impostazione ermeneutica, che richiamano, da un lato, la correttezza del ricorso all’analogia essendovene tutti presupposti, di cui all’art. 12 disp. prel. c.c., quali la lacuna dell’ordinamento, in quanto non vi è una disciplina specifica delle sopravvenienze applicabile alla fase tra l’aggiudicazione e la stipulazione del contratto e l’”eadem ratio”; dall’altro, la corretta applicazione del principio di economicità, dunque di buon andamento, dell’amministrazione (richiamato dall’art. 30, comma 1, del codice dei contratti pubblici), scongiurerebbe una riedizione della procedura, che diversamente s’imporrebbe in tutti i casi di modifica, ancorché non “essenziale”, delle condizioni.
Sotto altro profilo, il TAR afferma che il principio di immodificabilità del contratto non avrebbe carattere assoluto anche alla luce della giurisprudenza comunitaria.
Ed infatti la Corte di Giustizia UE, sez. VIII, nella sentenza del 7 settembre 2016, in C. 549-14, avrebbe chiarito che il principio di parità di trattamento e l’obbligo di trasparenza che ne derivano ostano a che, dopo l’aggiudicazione di un appalto pubblico, l’amministrazione aggiudicatrice e l’aggiudicatario apportino alle disposizioni di tale appalto modifiche tali che tali disposizioni presentino caratteristiche sostanzialmente diverse da quelle dell’appalto iniziale.
Ciò avviene, ha stabilito la Corte, solo quando le modifiche previste hanno l’effetto: a) di estendere l’appalto, in modo considerevole, ad elementi non previsti; b) di alterare l’equilibrio economico contrattuale in favore dell’aggiudicatario; c) di rimettere in discussione l’aggiudicazione dell’appalto, nel senso che, «se esse fossero state previste nei documenti disciplinanti la procedura di aggiudicazione originaria, sarebbe stata accolta un’altra offerta oppure avrebbero potuto essere ammessi offerenti diversi”.
Su tali basi, e richiamando l’istituto di cui all’art. 106 del vigente Codice dei Contratti, il Collegio ha ritenuto che tale complesso di principi e regole trovi applicazione anche al caso di specie ancorché le sopravvenienze che hanno determinato le modifiche intervenute nella fase fra la aggiudicazione e la stipula del contratto.
Il TAR ha ritenuto, quindi, legittima la clausola del contratto nella parte in cui ha previsto un adeguamento del compenso per l’appalto rispetto alla procedura di gara, in ragione del lungo tempo trascorso tra la presentazione dell’offerta e la stipulazione del contratto stesso, in relazione all’aumento del costo del personale e del numero delle utenze nelle more intervenuto (prima della stipulazione del contratto), non possa essere considerata nulla.
In conclusione, secondo la sentenza in commento se è vero che in linea generale il principio di parità di trattamento e l’obbligo di trasparenza che ne deriva ostano a che, dopo l’aggiudicazione di un appalto pubblico, l’amministrazione aggiudicatrice e l’aggiudicatario apportino alle disposizioni di tale appalto modifiche tali che dette disposizioni presentino caratteristiche sostanzialmente diverse rispetto a quelle dell’appalto iniziale, occorre comunque precisare che il principio di immodificabilità del contratto non ha carattere assoluto; ed infatti le succitate sentenze della Corte di Giustizia dell’Unione Europea ammetterebbero quelle modifiche non sostanziali, valorizzando dunque la tipologia delle modifiche e non il momento in cui intervengono.
Revisione prezzi: la presenza della clausola non comporta il diritto dell’appaltatore all’automatico aggiornamento dei prezzi
a cura dell’avvocato Maria Ida Tenuta
La sentenza del Consiglio di Stato n. 7756 del 6 settembre 2022 si è occupata del procedimento di revisione prezzi. In particolare, ancorché la fattispecie in concreto esaminata si riferisca alla revisione di cui al previgente comma 4, art. 6, della legge n. 537/1993, come sostituito dall’art. 44 della 1egge n. 724/1994, antecedente all’entrata in vigore dell’art. 115 D.Lgs. 163/2006 e poi al vigente art.106 D.Lgs. 50/2016, il Consiglio di Stato delinea e ricostruisce le caratteristiche generali del procedimento di revisione prezzi, qualificandolo come espressione della discrezionalità amministrativa.
Come noto, la disciplina della revisione del prezzo dei contratti pubblici di appalto di fornitura di beni e di servizi prevista dal comma 4, art. 6, della legge n. 537/1993, come sostituito dall’art. 44 della 1egge n. 724/1994 (applicabile ratione temporis al contratto di cui è causa) ha previsto l’obbligo di inserimento nei contratti ad esecuzione periodica o continuativa della clausole di revisione prezzi, indicando quale parametro di riferimento per il calcolo del quantum il miglior prezzo di mercato tra quelli rilevati ed elaborati dall’ISTAT per i principali beni e servizi acquisiti dalle pubbliche amministrazioni. Non avendo, tuttavia, l’ISTAT provveduto alla rilevazione ed elaborazione dei prezzi di mercato, l’indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati (FOI) determinato dall’ISTAT è stato individuato quale parametro di riferimento per supplire a tale carenza (Consiglio di Stato, sez. V, 8 maggio 2002, n. 2461; Consiglio di Stato, sez. V, 16 giugno 2003, n. 3373; Consiglio di Stato, sez. V, 14 dicembre 2006, n. 7461).
Analogamente il successivo art. 115 del D. Lgs. n. 163/2006 ha previsto l’obbligo di introdurre nei contratti ad esecuzione periodica o continuativa una clausola di revisione periodica del prezzo, da attivare a seguito di una istruttoria condotta dai dirigenti responsabili sulla base dei costi standardizzati per tipo di servizio e fornitura pubblicati annualmente a cura dell’Osservatorio dei contratti pubblici.
Subentrata la nuova norma, in mancanza della prevista pubblicazione dei costi standardizzati di cui all’art. 115, si è del pari ritenuto che la revisione di cui all’art. 115 possa ragionevolmente essere ancora effettuata sulla base dell’indice FOI pubblicato dall’ISTAT, che viene però considerato (salvo circostanze eccezionali che devono essere provate dall’impresa) come un limite massimo posto a tutela degli equilibri finanziari della pubblica amministrazione, e che pertanto non esime la stazione appaltante dal dovere di istruire il procedimento, tenendo conto di tutte le circostanze del caso concreto al fine di esprimere la propria determinazione discrezionale.
L’art. 106 D.Lgs. 50/2016, con una formulazione assai infelice e soggetta a numerosi interventi legislativi, prevede genericamente l’applicazione della clausola di revisione prezzi senza specificarne il contenuto e i parametri di calcolo, con evidente richiamo alla terminologia del previgente art. 115 D.Lgs. 163/2006 e, quindi, alla giurisprudenza formatasi sul punto.
Come ritenuto dalla giurisprudenza amministrativa i risultati del procedimento di revisione prezzi sono dunque espressione di una facoltà discrezionale, che sfocia in un provvedimento autoritativo, il quale deve essere impugnato nel termine decadenziale di legge (Cons. Stato, Sez. V, 27 novembre 2015 n. 5375, Consiglio di Stato sez. IV, 6 agosto 2014, n. 4207; sez. V, 24 gennaio 2013, n. 465; sez. V, 3 agosto 2012 n. 4444; Corte di Cassazione, SS.UU. 30 ottobre 2014, n. 23067; 15 marzo 2011, n. 6016; 12 gennaio 2011, n. 511; 12 luglio 2010, n. 16285).
La sentenza in esame si inserisce nel solco giurisprudenziale indicato.
Nel caso in esame, l’appellante ha impugnato la sentenza di primo grado con cui con la quale è stata respinta l’istanza di adeguamento prezzi ex art. 6 della legge n. 537/1993, nonché per il riconoscimento della spettanza in capo alla medesima ricorrente dell’adeguamento prezzi.
In particolare, l’appellante ha sostenuto che l’obbligatoria inserzione della clausola di revisione periodica del prezzo, da operare sulla base di un’istruttoria condotta dai competenti organi tecnici dell’Amministrazione, comporterebbe un diritto all’automatico all’aggiornamento del corrispettivo contrattuale, che l’Amministrazione, invece, non avrebbe illegittimamente riconosciuto.
Il Consiglio di Stato ha rigettato l’appello.
Secondo il Collegio i risultati del procedimento di revisione prezzi, come ritenuto dalla consolidata giurisprudenza amministrativa, sono espressione di una facoltà discrezionale, dunque, la posizione dell’appaltatore è di interesse legittimo, quanto alla richiesta di effettuare la revisione in base ai risultati dell’istruttoria (Cons. Stato, Sez. V, 22 dicembre 2014, n. 6275 e 24 gennaio 2013 n. 465), in presenza di una facoltà discrezionale riconosciuta alla stazione appaltante (Cass. SS.UU. 31 ottobre 2008, n. 26298), che deve effettuare un bilanciamento tra l’interesse dell’appaltatore alla revisione e l’interesse pubblico connesso sia al risparmio di spesa, sia alla regolare esecuzione del contratto aggiudicato.
Il Consiglio di Stato afferma che lo scopo principale dell’istituto, pertanto, è quello di tutelare l’interesse pubblico ad acquisire prestazioni di servizi qualitativamente adeguate; solo in via mediata e indiretta la disciplina realizza anche l’interesse dell’impresa, a non subire l’alterazione dell’equilibrio contrattuale conseguente alle modifiche dei costi che si verificano durante l’arco del rapporto (Consiglio di Stato, Sez. III, Sentenza n. 4362 del 19-07-2011; conforme Sez. V, 22 dicembre 2014, n. 6275; id., 24 gennaio 2013 n. 465)”.
Alla stregua di tali considerazioni, la determinazione della revisione prezzi viene effettuata dalla stazione appaltante all’esito di un’istruttoria condotta dai dirigenti responsabili dell’acquisizione di beni e servizi (Consiglio di Stato, sez. III, 9/1/2017, n. 25 cit.) secondo un modello procedimentale volto al compimento di un’attività di preventiva verifica dei presupposti necessari per il riconoscimento del compenso revisionale, che sottende l’esercizio di un potere autoritativo di carattere discrezionale dell’amministrazione nei confronti del privato contraente, potendo quest’ultimo collocarsi su un piano di equiordinazione con l’amministrazione solo con riguardo a questioni involgenti l’entità della pretesa.
Di conseguenza, la posizione del privato contraente si articolerà nella titolarità di un interesse legittimo con riferimento all’ an della pretesa ed eventualmente in una situazione di diritto soggettivo con riguardo al quantum, ma solo una volta che sarà intervenuto il riconoscimento della spettanza di un compenso revisionale; tale costruzione, ormai del tutto ininfluente ai fini del riparto di giurisdizione, per effetto dell’art. 133, lett. e), punto 2), c.p.a., che assoggetta l’intera disciplina della revisione prezzi alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, mantiene inalterata la sua rilevanza con riferimento alle posizioni giuridiche soggettive del contraente dell’amministrazione.
La qualificazione in termini autoritativi del potere di verifica della sussistenza dei presupposti per il riconoscimento del compenso revisionale, comporta che il privato contraente potrà avvalersi solo dei rimedi e delle forme tipiche di tutela dell’interesse legittimo. Ne deriva che sarà sempre necessaria l’attivazione – su istanza di parte – di un procedimento amministrativo nel quale l’Amministrazione dovrà svolgere l’attività istruttoria volta all’accertamento della sussistenza dei presupposti per il riconoscimento del compenso revisionale, compito che dovrà sfociare nell’adozione del provvedimento che riconosce il diritto al compenso revisionale e ne stabilisce anche l’importo. In caso di inerzia da parte della stazione appaltante, a fronte della specifica richiesta dell’appaltatore, quest’ultimo potrà impugnare il silenzio inadempimento prestato dall’Amministrazione, ma non potrà demandare in via diretta al giudice l’accertamento del diritto, non potendo questi sostituirsi all’amministrazione rispetto ad un obbligo di provvedere gravante su di essa (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 24 gennaio 2013 n. 465).
Alla luce di tali considerazioni il Collegio statuisce quindi che: “L’obbligatoria inserzione di una clausola di revisione periodica del prezzo, da operare sulla base di un’istruttoria condotta dai competenti organi tecnici dell’Amministrazione, non comporta pertanto anche il diritto all’automatico aggiornamento del corrispettivo contrattuale, ma soltanto che l’Amministrazione proceda agli adempimenti istruttori normativamente sanciti (Consiglio di Stato sez, III, 6/08/2018 n. 4827)”.
In conclusione, in presenza di una clausola di revisione prezzi non sussiste un diritto automatico ad ottenere il compenso revisionale ma l’esistenza della clausola impone all’Amministrazione di svolgere l’attività istruttoria in esito alla quale, valutate anche le circostanze concrete e non solo i parametri ISTAT e indice FOI, adotta un provvedimento che è espressione della discrezionalità amministrativa, e che potrebbe concludersi col rigetto della istanza revisionale.
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Conflitto di interesse attuale e potenziale e il ruolo centrale del RUP
a cura dell’avvocato Maria Ida Tenuta
Con la recente sentenza n. 6389 del 20 luglio 2022, il Consiglio di Stato si è occupato del conflitto d’interessi di cui all’art. 42 del D.Lgs. 50/2016.
Secondo l’art. 42, comma 2, del D.Lgs. n. 50/2016: “Si ha conflitto d’interesse quando il personale di una stazione appaltante o di un prestatore di servizi che, anche per conto della stazione appaltante, interviene nello svolgimento della procedura di aggiudicazione degli appalti e delle concessioni o può influenzarne, in qualsiasi modo, il risultato, ha, direttamente o indirettamente, un interesse finanziario, economico o altro interesse personale che può essere percepito come una minaccia alla sua imparzialità e indipendenza nel contesto della procedura di appalto o di concessione. In particolare, costituiscono situazione di conflitto di interesse quelle che determinano l’obbligo di astensione previste dall’articolo 7 del decreto del Presidente della Repubblica 16 aprile 2013, n. 622”.
Le ipotesi tipiche del conflitto di interessi sono contenute nell’ 7 del D.P.R. n. 62 del 2013 secondo cui il dipendente deve astenersi “dal partecipare all’adozione di decisioni o ad attività che possano coinvolgere interessi propri, ovvero di suoi parenti, affini entro il secondo grado, del coniuge o di conviventi, oppure di persone con le quali abbia rapporti di frequentazione abituale, ovvero, di soggetti od organizzazioni con cui egli o il coniuge abbia causa pendente o grave inimicizia o rapporti di credito o debito significativi, ovvero di soggetti od organizzazioni di cui sia tutore, curatore, procuratore o agente, ovvero di enti, associazioni anche non riconosciute, comitati, società o stabilimenti di cui sia amministratore o gerente o dirigente. Il dipendente si astiene in ogni altro caso in cui esistano gravi ragioni di convenienza. Sull’astensione decide il responsabile dell’ufficio di appartenenza.”
A tali ipotesi si aggiungono quelle di potenziale conflitto che, seppur non tipizzate, potrebbero compromettere l’imparzialità amministrativa o l’immagine stessa del potere pubblico, e per le quali si rende necessaria una valutazione caso per caso.
In merito all’ambito soggettivo di applicazione dell’art. 42, comma 2, del d.lgs. n. 50/2016 la giurisprudenza ha ritenuto che per “personale della stazione appaltante” si debba intendere qualsiasi soggetto che, in forza di un valido titolo contrattuale o legislativo, ovvero per la sua posizione di rilievo, abbia la capacità di impegnare la stazione appaltante nei confronti di terzi (cfr. Cons. Stato, sez. V, sent. n. 3415 del 2017, cfr. anche Linee Guida ANAC n. 15 del 15 giugno 2019), a patto però che, sul versante oggettivo, la situazione di conflitto di interesse venga verificata in concreto sulla base di prove specifiche (cfr. Cons. Stato, sez. V, sent. n. 3401/2018 e n. 2511/2019).
Quanto all’interesse rilevante per l’insorgenza del conflitto, la norma va intesa come operante indipendentemente dal concretizzarsi di un vantaggio, per il solo pericolo di pregiudizio che la situazione conflittuale può ingenerare.
Il conflitto di interessi di cui all’art. 42 cit. è quindi da intendersi come norma lato sensu “di pericolo”, in quanto le misure che essa contempla (astensione dei dipendenti) o comporta (esclusione dell’impresa concorrente) operano per il solo pericolo di pregiudizio che la situazione conflittuale può determinare (così Cons. Stato, sez. III, n. 355/2019 e sez. V, n. 3048/2020)
In tale solco interpretativo si inserisce la sentenza in esame che nell’esaminare il conflitto di interesse attuale e potenziale, definisce la differenza tra ipotesi “tipiche “e “atipiche”.
Nel caso di specie l’appellante ha impugnato la sentenza con cui il TAR aveva confermato l’esclusione di un operatore economica da una gara attesa la sussistenza di un conflitto di interessi dovuto ai rapporti tra il RUP e l’operatore medesimo.
In particolare, il RUP che aveva predisposto il bando e gli altri atti del procedimento concorsuale, incluso il capitolato prestazionale, partecipando alle sedute della Commissione, anche alle sedute riservate, in qualità di segretario verbalizzante, aveva prestato attività di consulenza per la società aggiudicataria che aveva appellato la sentenza, nonché aveva avuto dei rapporti di “frequentazione familiare” con alcuni soci della società appellante.
L’appellante ha censurato la sentenza di primo grado sostenendo che, da un lato, non vi sarebbe alcun riscontro probatorio o documentale sui rapporti intercorrenti tra il RUP e la società stessa, che non sarebbe stata svolta in giudizio alcuna attività istruttoria sul punto e in ogni caso che le frequentazioni con i membri della società e quelle professionali si riferirebbero al passato, nonché, dall’altro lato, il RUP non avrebbe elaborato un’apposita disciplina per la gara in questione, ma si sarebbe limitato ad impostare gli atti di gara utilizzando il bando-tipo fornito dall’ANAC.
Il Consiglio di Stato ha rigettato l’appello.
In particolare, il Consiglio di Stato ha ritenuto che il conflitto di interessi non debba essere necessariamente attuale ma che possa essere anche solo potenziale, nonché “atipico”.
Invero, il Collegio ha ripercorso i principi generali in materia di conflitto di interessi affermando che, come indicato dal parere del Consiglio di Stato n. 667/2019 del 5 marzo 2019 occorre distinguere situazioni di conflitto di interessi da un lato conclamate, palesi e soprattutto tipizzate, individuate dall’art. 7 del d.P.R. n. 62/2013 citato, dall’altro non conosciute o non conoscibili, e soprattutto non tipizzate. La nozione di conflitto di interessi include, quindi, non soltanto le ipotesi di conflitto attuale e concreto, ma anche quelle che potrebbero derivare da una condizione non tipizzata ma ugualmente idonea a determinarne il rischio.
Secondo il Collegio le situazioni di “potenziale conflitto” sono identificate in primo luogo, in quelle che, per loro natura, pur non costituendo allo stato una delle situazioni tipizzate, siano destinate ad evolvere in un conflitto tipizzato. A queste vengono aggiunte “quelle situazioni le quali possano per sé favorire l’insorgere di un rapporto di favore o comunque di non indipendenza e imparzialità in relazione a rapporti pregressi, solo però se inquadrabili per sé nelle categorie dei conflitti tipizzati. Si pensi a una situazione di pregressa frequentazione abituale (un vecchio compagno di studi) che ben potrebbe risorgere (donde la potenzialità) o comunque ingenerare dubbi di parzialità”.
Sulla base di tali coordinate ermeneutiche, la sentenza in esame ha respinto l’appello ritenendo che: “… l’ipotesi tipizzata di conflitto di interesse più affine alla situazione in esame è quella del dipendente che debba partecipare ad attività che possano coinvolgere interessi “di persone con le quali abbia rapporti di frequentazione abituale”, laddove l’attualità della “frequentazione abituale” delinea la fattispecie di conflitto di interessi in atto. Si è però sopra evidenziato come rilevi anche la situazione di conflitto di interessi in potenza, cioè “anche potenziale”, sub specie di situazione idonea a dare luogo ad una grave ragione di convenienza che impone l’astensione. Dato ciò, nel caso di specie, dichiarate dallo stesso interessato le “frequentazioni anche familiari” con membri della società, pur se riferite al “passato”, potrebbe essere escluso il conflitto di interesse attuale, ma non quello potenziale”.
In buona sostanza, il Collegio ha ritenuto che anche se la frequentazione familiare del RUP con i membri della società non era in corso, ciò comporta comunque un conflitto di interessi potenziale in quanto tali rapporti non si sono definitivamente interrotti e la frequentazione non è così risalente nel tempo.
Il Consiglio di Stato ha, inoltre, sottolineato che il RUP ha un ruolo centrale nel procedimento amministrativo anche ai fini della rilevanza del conflitto di interesse in quanto “…si tratta di soggetto che, non solo prende parte alla procedura ma è anche in grado di determinarne il risultato”.
Anzi è irrilevante, come detto, la dimostrazione positiva dell’assenza di vantaggi concreti, poiché prevale la finalità preventiva di impedire che la situazione di conflitto di interesse possa “essere percepita” come una minaccia all’imparzialità ed all’indipendenza del funzionario nel contesto della procedura di gara”.
In conclusione, secondo la sentenza in esame: i) rilevano sia situazioni di conflitto di interessi palesi e tipizzate (che sono poi quelle individuate dall’art. 7 del d.P.R. n. 62/2013) , sia situazioni di conflitto di interessi non tipizzate e potenziali; ii) le situazioni di “potenziale conflitto” non tipizzate sono quelle che: a) pur non costituendo allo stato una delle situazioni tipizzate, siano destinate ad evolvere in un conflitto tipizzato; b) possano per sé favorire l’insorgere di un rapporto di favore o comunque di non indipendenza e imparzialità in relazione a rapporti pregressi; iii) nella procedura di gara il RUP ha un ruolo centrale e determinante rispetto al quale deve essere verificata la sussistenza di un conflitto di interessi anche solo potenziale.
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La decorrenza del termine per il ricorso giurisdizionale e l’onere di partecipare alle sedute della gara
a cura dell’avvocato Maria Ida Tenuta
Con la recente sentenza del 27 giugno 2022 n. 5232 Consiglio di Stato ha affrontato la questione dei termini di decorrenza per l’impugnazione del provvedimento di aggiudicazione.
Come noto, sul punto si è espressa l’Adunanza plenaria, con sentenza del 2 luglio 2020, n. 12, che è giunta all’affermazione dei seguenti principi di diritto: “a) il termine per l’impugnazione dell’aggiudicazione decorre dalla pubblicazione generalizzata degli atti di gara, tra cui devono comprendersi anche i verbali di gara, ivi comprese le operazioni tutte e le valutazioni operate dalle commissioni di gara delle offerte presentate, in coerenza con la previsione contenuta nell’art. 29 del d.lgs. n. 50 del 2016; b) le informazioni previste, d’ufficio o a richiesta, dall’art. 76 del d.lgs. n. 50 del 2016, nella parte in cui consentono di avere ulteriori elementi per apprezzare i vizi già individuati ovvero per accertarne altri, consentono la proposizione non solo dei motivi aggiunti, ma anche di un ricorso principale; c) la proposizione dell’istanza di accesso agli atti di gara comporta la ‘dilazione temporale’ quando i motivi di ricorso conseguano alla conoscenza dei documenti che completano l’offerta dell’aggiudicatario ovvero delle giustificazioni rese nell’ambito del procedimento di verifica dell’anomalia dell’offerta; d) la pubblicazione degli atti di gara, con i relativi eventuali allegati, ex art. 29 del decreto legislativo n. 50 del 2016, è idonea a far decorrere il termine di impugnazione; e) sono idonee a far decorrere il termine per l’impugnazione dell’atto di aggiudicazione le forme di comunicazione e di pubblicità individuate nel bando di gara ed accettate dai partecipanti alla gara, purché gli atti siano comunicati o pubblicati unitamente ai relativi allegati”.
Con particolare riguardo alla “dilazione temporale” determinata dalla presentazione dell’istanza di accesso (lett. c) dei principi di diritto sopra riportati), lo stesso Consiglio di Stato ha successivamente precisato che “più tempestiva è l’istanza di accesso che il concorrente presenti una volta avuta conoscenza dell’aggiudicazione, maggiore sarà il tempo a sua disposizione per il ricorso giurisdizionale; quel che non può consentirsi è che il concorrente possa, rinviando nel tempo l’istanza di accesso agli atti di gara, posticipare a suo gradimento il termine ultimo per l’impugnazione dell’aggiudicazione” (Cons. Stato, sez. V, 16 aprile 2021, n. 3127).
Tali ultime considerazioni lasciano intendere che non può essere indifferente, ai fini del computo del termine decadenziale per l’impugnazione dell’aggiudicazione, l’atteggiamento dell’operatore economico interessato e, dunque, la sua maggiore o minore prontezza nell’esercizio dell’accesso agli atti dalla cui conoscenza conseguano i motivi di ricorso.
Ed infatti, la giurisprudenza successiva alla pronuncia dell’Adunanza plenaria ha chiarito che ai fini del computo del termine a disposizione per ricorrere avverso gli atti oggetto di ostensione documentale va tenuto conto sia dei ritardi della stazione appaltante, sia del comportamento eventualmente inerte dell’operatore economico.
Pertanto, se, da una parte, il rifiuto o il differimento dell’accesso da parte della stazione appaltante non determina la “consumazione” del potere di impugnare, dall’altra parte “ogni eventuale giorno di ritardo del concorrente non aggiudicatario che intenda accedere agli atti deve essere computato, a suo carico, sul termine complessivamente utile per proporre gravame (…). In altre parole, al termine ordinario di 30 giorni occorrerà se del caso sottrarre i giorni che ha impiegato la PA per consentire l’accesso agli atti (termine non a carico del privato) e allo stesso tempo aggiungere i giorni “a carico” del ricorrente, pari ossia al tempo impiegato tra la comunicazione di aggiudicazione e la domanda di accesso” (TAR Lazio, Roma, sez. III-quater, 15 dicembre 2020, n. 13550; anche TAR Lazio, sez. I-ter, 12 aprile 2021, n. 4249; TAR Emilia-Romagna, Bologna, sez. II, 29 luglio 2021, n. 747).
La sentenza in commento si inserisce nel solco giurisprudenziale appena indicato.
Nel caso di specie l’appellante ha impugnato la sentenza del TAR con cui era stata annullata l’aggiudicazione del contratto d’appalto adottata a favore dell’appellante stessa per effetto dell’accoglimento delle censure formulate dalla seconda classificata.
Già nel corso del giudizio di primo grado la stazione appaltante e l’aggiudicataria eccepivano, tra le varie censure, l’irricevibilità del ricorso per tardività.
In particolare, secondo queste ultime i motivi di censura pur riguardando l’offerta dell’aggiudicataria, erano conoscibili prima dell’esercizio dell’accesso, avvenuto dopo l’aggiudicazione, in quanto i vizi dell’offerta dell’aggiudicataria erano desumibili già dai verbali di gara e dalla documentazione allegata, che erano stati prontamente pubblicati sul sito della stazione appaltante.
Il TAR ha rigettato l’eccezione ritenendo, invece, che i motivi di censura che riguardavano il contenuto dell’offerta dell’aggiudicataria erano conoscibili solo all’esito dell’accesso agli atti avvenuto dopo l’aggiudicazione.
Le parti soccombenti hanno quindi proposto appello e riproposto la detta eccezione di tardività del ricorso di primo grado.
Il Consiglio di Stato ha ritenuto fondata l’eccezione.
Secondo il Consiglio di Stato “il termine per l’impugnazione dell’aggiudicazione decorre dalla pubblicazione generalizzata degli atti di gara, tra cui devono comprendersi anche i verbali di gara, ivi comprese le operazioni tutte e le valutazioni operate dalle commissioni di gara delle offerte presentate, in coerenza con la previsione contenuta nell’art. 29 del d.lgs. n. 50 del 2016” e che “la proposizione dell’istanza di accesso agli atti di gara comporta la ‘dilazione temporale’ quando i motivi di ricorso conseguano alla conoscenza dei documenti che completano l’offerta dell’aggiudicatario ovvero delle giustificazioni rese nell’ambito del procedimento di verifica dell’anomalia dell’offerta” (Cons. Stato, Ad. plen., 2 luglio 2020, n. 12).
Il Collegio afferma che tale impostazione esegetica risulta, peraltro, confermata dalla Corte costituzionale, la quale pronunciandosi sulla legittimità costituzionale dell’art. 120 c.p.a., ha evidenziato che il termine per la proposizione dei motivi aggiunti decorre non dalla ricezione della comunicazione di aggiudicazione, ma, quanto ai vizi non percepibili in precedenza, dal momento dell’effettiva conoscenza degli atti di gara.
Invero, la Corte costituzionale ha puntualizzato che sono “salve le ulteriori ipotesi di decorrenza di altra natura” e ha altresì affiancato alla “data in cui [la parte che intende agire in giudizio] ha preso conoscenza…” dell’atto o del provvedimento ritenuto illegittimo e lesivo, anche quella in cui “avrebbe potuto prendere conoscenza usando l’ordinaria diligenza” (Corte costituzionale, sentenza 28 ottobre 2021, n. 204).
Il Collegio ha ricordato che principi analoghi si traggono anche in ambito sovranazionale dalle sentenze della Corte di giustizia, la quale ha, a sua volta, affermato che il diritto euro-unitaria nella materia degli appalti pubblici “esige che il termine per proporre ricorso decorra dalla data in cui il ricorrente è venuto a conoscenza o avrebbe dovuto essere a conoscenza della illegittimità che intende denunciare” (Corte di giustizia dell’Unione europea, 28 gennaio 2010, C-406/08, Uniplex).
Il Giudice ha rilevato, inoltre, che il verbale delle sedute delle c.d. gare di appalto, in ordine ai fatti in esso riportati, va qualificato come “atto pubblico” e, come tale, esso è fidefacente fino a querela di falso ai sensi degli artt. 2699 e 2700 c.c. (Cons. Stato, sez. V, 7 giugno 2012, n. 3351).
Secondo il Consiglio di Stato in base ai principi passati in rassegna, risulta evidente come rilevi, per valutare la tempestività del ricorso di primo grado, la possibilità per la società ricorrente di venire a conoscenza dei vizi di legittimità dedotti avverso gli atti endoprocedimentali relativi alla qualificazione tecnica della società aggiudicataria in un momento anteriore rispetto a quella nel quale si è consentito l’accesso agli atti e si è ostesa la documentazione domandata.
Nel caso di specie dai verbali, pubblicati sul sito della stazione appaltanti e in ordine a sedute di gara in cui l’appellata non aveva preso parte a differenza dell’appellante, emergevano gli elementi necessari per conoscere l’esistenza dei vizi dell’aggiudicazione censurati con il ricorso di primo grado.
Il Consiglio di Stato ha statuito, quindi, che: “la società ricorrente avrebbe potuto (o meglio dovuto) prendere conoscenza della documentazione comprovante la violazione della lex specialis, usando l’ordinaria diligenza, già a partire dalla seduta di gara del 14 luglio 2021, prendendo parte alla relativa seduta e consultando la documentazione depositata dalla concorrente.
Già in un precedente di questa sezione, si è avuto modo di stabilire che la concorrente abbia l’onere di partecipazione alle sedute della gara di appalto (Cons. Stato, sez. IV, 3 febbraio 2022, n. 768, §§ da 20 a 22.1.).
Le esigenze di snellimento e tempestività delle procedure di affidamento dei contratti pubblici, cristallizzate nella disciplina del codice dei contratti pubblici (cfr. art. 30 d.lgs. 18 aprile 2016 n. 50) e in quella relativa ai rimedi giurisdizionali (cfr. art. 120 c.p.a.), non gravano soltanto sulla amministrazione procedente o sull’autorità giudiziaria chiamata a conoscere del relativo contenzioso, dovendosi invece, in attuazione del dovere di solidarietà economica gravante su ciascun consociato (art. 2 Cost.), ritenerle estese anche agli operatori economici partecipanti alle procedure di evidenza pubblica”.
In conclusione, la pronuncia in commento: i) applica i principi espressi dalla decisione n. 12/2020 dell’Adunanza Plenaria e dalla successiva giurisprudenza formatasi sul termine di impugnazione del provvedimento di aggiudicazione valorizzando l’obbligo del concorrente di tenere un comportamento diligente ai fini della conoscenza e conoscibilità degli atti e dei provvedimenti lesivi della procedura; ii) al fine di conoscere il contenuto degli atti della procedura l’operatore economico ha l’onere di partecipare alle sedute di gara atteso che l’esigenza di tempestività e celerità nello svolgimento delle procedure di affidamento dei contratti pubblici grava non solo sull’Amministrazione ma anche sul singolo concorrente.
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Soccorso istruttorio per l’offerta tecnica
a cura dell’avvocato Maria Ida Tenuta
Con la recente sentenza n. 449 del 12 aprile 2022, il TAR Lazio-Roma ha affrontato la questione dei presupposti che legittimano il ricorso al soccorso istruttorio per l’offerta tecnica, indicandone i limiti applicativi, in ossequio al divieto di modifica modificazione e/o integrazione dell’offerta
Come noto, l’art. 83, comma 9, del D.Lgs. 50/2016 prevede espressamente che le carenze formali possono essere sanate attraverso la procedura del c.d. soccorso istruttorio “… con esclusione di quelle afferenti all’offerta economica ed all’offerta tecnica”.
Recenti pronunce del Consiglio di Stato ammettono la possibilità di sanare, tramite soccorso istruttorio, carenze sull’offerta tecnica qualificabili come meri errori ovvero imprecisioni imputabili alla formulazione degli atti di gara; nonché di richiedere chiarimenti finalizzati alla corretta interpretazione della volontà del concorrente, fatta salva l’immodificabilità dell’offerta (Consiglio di Stato, sez. V, 27 marzo 2020, n. 2146).
Si è affermato l’indirizzo interpretativo che rinviene nel sistema normativo degli appalti pubblici la possibilità, in relazione all’art. 83 cit., di attivare da parte della stazione appaltante un ‘soccorso procedimentale’, nettamente distinto dal ‘soccorso istruttorio’, utile per risolvere dubbi riguardanti “gli elementi essenziali dell’offerta tecnica ed economica”, tramite l’acquisizione di chiarimenti da parte del concorrente che non assumano carattere integrativo dell’offerta, ma che siano finalizzati unicamente a consentirne l’esatta interpretazione e a ricercare l’effettiva volontà del partecipante alla gara, superandone le eventuali ambiguità (Cons. Stato, n. 680/2020 e n. 1225/2020).
Tale indirizzo richiama la sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea (nella sentenza sez. VIII, 10 maggio 2017, nella causa C-131/16 Archus), che sul soccorso istruttorio ha enunciato le seguenti regole: a) è consentito all’Amministrazione di chiedere chiarimenti ad un candidato la cui offerta essa ritiene imprecisa o non conforme alle specifiche tecniche del capitolato d’oneri; b) non è in contrasto con il principio della par condicio tra i concorrenti la richiesta di correzione o completamento dell’offerta su singoli punti, qualora l’offerta necessiti in modo evidente di un chiarimento o qualora si tratti di correggere errori materiali manifesti, fatto salvo il rispetto di alcuni requisiti; c) una richiesta di chiarimenti non può ovviare alla mancanza di un documento o di un’informazione la cui comunicazione era richiesta dai documenti dell’appalto, se non nel caso in cui essi siano indispensabili per chiarimento dell’offerta o rettifica di un errore manifesto dell’offerta e sempre che non comportino modifiche tali da costituire, in realtà, una nuova offerta.
In tale solco interpretativo si inserisce la sentenza in esame che individua i presupposti che legittimano l’applicazione del soccorso istruttorio per l’offerta tecnica indicandone, al contempo, i limiti di applicazione, nel rispetto del divieto di modificazione e/o integrazione delle proposte offerte dal concorrente.
Nel caso di specie la stazione appaltante aveva provveduto a revisionare la graduatoria in seguito alle istanze di autotutela presentate da due concorrenti, che avevano chiesto di riattribuire i rispettivi punteggi relativi alle proprie offerte tecniche in quanto affette da asseriti “errori materiali” concernenti le certificazioni di qualità richieste dalla lex specialis (i.e. avevano richiesto e ottenuto di sostituire le certificazioni scadute allegate in offerta con quelle in corso di validità).
La ricorrente aveva impugnato l’aggiudicazione e gli atti di gara lamentando la violazione del principio immodificabilità dell’offerta nonché dell’art. 83, comma 9, del D.lgs. 50/2016.
Il TAR Lazio ha accolto il ricorso.
Secondo il Collegio nella gara oggetto del contendere il soccorso istruttorio è stato illegittimamente attivato in quanto non si è imposta la necessità di un chiarimento, né di correggere un errore manifesto; né, tantomeno, si è trattato di supplire alla mancanza di un documento o di una informazione, bensì “si è consentito di rimediare alla violazione di prescrizioni documentali imposte dalla legge di gara, già oggetto di valutazione e sostanziatesi nella formulazione di una (prima) graduatoria”.
La pronuncia in esame richiama la sentenza del Consiglio di Stato n. 2146/2020 e la pronuncia della Corte di Giustizia dell’Unione europea (10 maggio 2017, causa C-131/16 Archus), nella parte in cui afferma che: “non è in contrasto con il principio della par condicio tra i concorrenti la richiesta di correzione o completamento dell’offerta su singoli punti, qualora l’offerta necessiti in modo evidente di un chiarimento o qualora si tratti di correggere errori materiali manifesti, fatto salvo il rispetto di alcuni requisiti”; ma al contempo precisa che “una richiesta di chiarimenti non può ovviare alla mancanza di un documento o di un’informazione la cui comunicazione era richiesta dai documenti dell’appalto, se non nel caso in cui essi siano indispensabili per chiarimento dell’offerta o rettifica di un errore manifesto dell’offerta e sempre che non comportino modifiche tali da costituire, in realtà, una nuova offerta”.
Sul punto, la giurisprudenza ha, infatti, sottolineato che “il ricorso al soccorso istruttorio non si giustifica nei casi in cui confligge con il principio generale dell’autoresponsabilità dei concorrenti, in forza del quale ciascuno sopporta le conseguenze di eventuali errori commessi nella presentazione della documentazione; con la conseguenza che, in presenza di una previsione chiara e dell’inosservanza di questa da parte di un concorrente, l’invito alla integrazione costituirebbe una palese violazione del principio della par condicio, che verrebbe vulnerato dalla rimessione in termini, per mezzo della sanatoria (su iniziativa dell’Amministrazione), di una documentazione incompleta o insufficiente ad attestare il possesso del requisito di partecipazione da parte del concorrente che non ha presentato, nei termini e con le modalità previste dalla lex specialis, una dichiarazione o documentazione conforme al bando (cfr., da ultimo, C.d.S., III, n. 6752/2018, che richiama, id., n. 4266/2018 e n. 2219/2016)” (cfr. Consiglio di Stato, sez. III, 22 maggio 2019, n. 3331).
In conclusione, dunque, secondo la sentenza in esame: i) è consentita l’interlocuzione tra l’Amministrazione e il Concorrente anche nella fase relativa all’esame dell’offerta tecnica in quanto conforme ai principi di buon andamento dell’Amministrazione e di par condicio tra gli operatori economici, ma a condizione che tale interlocuzione rispetti il divieto di modificazione e/o integrazione delle proposte offerte dal concorrente; ii) in particolare, non è in contrasto con il principio della par condicio la richiesta di correzione o completamento dell’offerta su singoli punti, qualora l’offerta necessiti in modo evidente di un chiarimento o qualora si tratti di correggere errori materiali manifesti; iii) tale richiesta di chiarimenti non può ovviare, tuttavia, alla mancanza di un documento o di un’informazione la cui comunicazione era richiesta dai documenti di gara, salvo nel caso in cui essi siano indispensabili per chiarire il contenuto dell’offerta o per la rettifica di un errore manifesto dell’offerta.
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La valutazione dell’affidabilità del concorrente e la carenza di motivazione del provvedimento di ammissione
a cura dell’avvocato Maria Ida Tenuta
La sentenza del TAR Lombardia-Milano n. 668 del 24 marzo 2022 si è occupata di verificare se la carenza di motivazione del provvedimento di ammissione possa ex se implicare un difetto di istruttoria e di motivazione.
Come noto, il provvedimento amministrativo deve essere motivato ai sensi dell’art. 3 della Legge 241/1990, secondo cui: “ogni provvedimento amministrativo deve essere motivato, con l’indicazione dei presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell’amministrazione, in relazione alle risultanze dell’istruttoria”.
L’art. 3 della Legge 241/1990 nell’imporre all’Amministrazione di motivare il provvedimento amministrativo ha garantito la trasparenza dell’azione amministrativa, mettendo in rilievo il processo istruttorio, nonché consentendo una maggiore effettività del sindacato di legittimità come imposto, peraltro, dagli articoli 24, 97 e 113 Costituzione.
Ed infatti è alla luce della motivazione espressa nel provvedimento amministrativo che risulta più agevole, per il soggetto leso dal provvedimento stesso, rilevare se l’azione amministrativa sia improntata ai criteri di legge e, al Giudice, esercitare efficacemente il sindacato estrinseco sul provvedimento stesso.
Costituisce, tuttavia, regola generale quella secondo cui la stazione appaltante deve motivare puntualmente le esclusioni, e non anche le ammissioni, se su di esse non vi è, in gara, contestazione (Cons. Stato, V, 5 maggio 2020, n. 2850; VI, 18 luglio 2016, n. 3198; C.G.A.R.S., 23 gennaio 2015, n. 53; Cons. Stato, VI, 21 maggio 2014, n. 2622; III, 24 dicembre 2013, n. 6236).
La sentenza in commento si inserisce nel solco giurisprudenziale appena indicato.
Nel caso in esame con il primo motivo veniva dedotta l’illegittimità dell’ammissione alla procedura di gara dell’aggiudicataria per difetto di istruttoria e motivazione in ordine al possesso dei requisiti di affidabilità e integrità, di cui all’art. 80, comma 5, lett. c) e c-bis), D.lgs. 50/2016.
Secondo il ricorrente le vicende penali che hanno coinvolto soggetti apicali della società aggiudicataria, per la gravità degli addebiti e la pertinenza con l’oggetto del contratto, avrebbero imposto alla stazione appaltante lo svolgimento di una attività istruttoria e l’adozione di un’espressa motivazione con riferimento all’affidabilità e integrità dell’operatore economico e all’idoneità delle misure di self-cleaning dallo stesso adottate.
Il TAR ha respinto il ricorso.
In particolare, il Collegio ha affermato che con le dichiarazioni sostitutive di atto di notorietà l’aggiudicataria aveva informato la stazione appaltante delle vicende penali che avevano coinvolto l’ex amministratore delegato e un responsabile operativo, adempiendo quindi agli obblighi dichiarativi prescritti dalla legge.
La stazione appaltante aveva, dunque, piena contezza dei fatti allorché ha valutato l’affidabilità e l’integrità dell’operatore economico.
Quanto alla mancanza di una esplicita motivazione in ordine alla sussistenza di tali requisiti, secondo il TAR, essa non va a inficiare la legittimità del provvedimento impugnato.
Ed infatti, il Collegio afferma che la stazione appaltante deve motivare puntualmente le esclusioni, e non anche le ammissioni, se su di esse non vi è, in gara, contestazione.
Né il Giudice ritiene rilevante il fatto che la causa espulsiva non sia stata citata poiché, altrimenti, si dovrebbe immaginare di costruire un provvedimento di ammissione in cui, rispetto ad ogni singola ipotesi astrattamente prevista dal legislatore, l’amministrazione ne esamini e ne consideri la relativa insussistenza, in palese contrasto con il principio di speditezza dell’azione amministrativa (Cons. Stato, sez. n. V, n. 5499/2018).
Invero, il TAR richiama la giurisprudenza amministrativa secondo cui: “la stazione appaltante che non ritenga i precedenti dichiarati dal concorrente incisivi della sua moralità professionale, non è tenuta a esplicitare in maniera analitica le ragioni di siffatto convincimento, potendo la motivazione di non gravità delle relative circostanze risultare anche implicita o per facta concludentia, ossia con l’ammissione alla gara dell’impresa; è la valutazione di gravità, semmai, che richiede l’assolvimento di un particolare onere motivazionale, con la conseguenza che la stazione appaltante deve motivare puntualmente le esclusioni, e non anche le ammissioni, se su di esse non vi è, in gara, contestazione (Cons. Stato, sez. V, n. 2580/2020; sez. VI, 6 dicembre 2021, n. 8081; n. 3198/2016; C.G.A.R.S., n. 53/2015; Cons. Stato, sez. VI, n. 2622/2014; sez. III, n. 6236/2013; sez. V, n. 3924/2011; sez. III, n. 1583/2011; sez. VI, n. 4019/2010)”.
Il Collegio respinge dunque il ricorso statuendo che: “La carenza di motivazione del provvedimento di ammissione a una gara pubblica di un concorrente, pertanto, non può di per sé implicare un difetto di istruttoria e di motivazione in ordine alla rilevanza delle circostanze dichiarate dal concorrente, né determina un ostacolo alla piena tutela giudiziale degli altri concorrenti, cui è comunque garantita la possibilità di far valere le proprie ragioni avverso l’ammissione.”.
In conclusione, la pronuncia in esame afferma che con riferimento al provvedimento di ammissione non è necessario che l’Amministrazione debba fornire la relativa motivazione, neanche nell’ipotesi in cui debba essere valutata l’affidabilità e l’integrità professionale del concorrente ai sensi dell’art. 80, comma 5, lett. c) D.Lgs. 50/2016; la stazione appaltante deve motivare puntualmente le esclusioni, e non anche le ammissioni, se su di esse non vi è, in gara, contestazione; l’unico caso in cui, quindi, l’amministrazione deve motivare l’ammissione si verifica quando nel corso della procedura emergano delle contestazioni in ordine all’affidabilità e integrità professionale del concorrente stesso.
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Requisiti di partecipazione e requisiti di esecuzione: distinzione e riflessi in ordine all’esclusione del concorrente
a cura dell’avvocato Maria Ida Tenuta
La sentenza del Consiglio di Stato n. 722 del 2 febbraio 2022 è tornata ad occuparsi della distinzione tra requisiti di partecipazione e requisiti di esecuzione, nonché dei riflessi in ordine all’esclusione del concorrente.
Come noto, la giurisprudenza definisce i requisiti di esecuzione quali “elementi caratterizzanti la fase esecutiva del servizio” (Cons. Stato, n. 5929/2017; Cons. Stato n. 4390/2018, Cons. Stato n. 2443/2017; Cons. Stato n. 1094/2017; Cons. Stato n. 4907/2014), vale a dire i mezzi (strumenti, beni ed attrezzature) necessari all’esecuzione della prestazione promessa alla stazione appaltante (Cons. Stato, n. 8159/2020,), così distinguendoli dai requisiti di partecipazione che sono invece necessari per accedere alla procedura di gara, in quanto requisiti generali di moralità ai sensi dell’art. 80 D.Lgs. 50/2016 e requisiti speciali attinenti ai criteri di selezione di cui all’art. 83 D.Lgs. 50/2016.
Secondo tale distinzione la mancanza dei requisiti di partecipazione in fase di gara determina l’esclusione dei concorrenti, mentre tale sanzione non risulta applicabile ai requisiti di esecuzione, che rileverebbero, appunto, solo nella fase esecutiva del contratto.
In merito ai requisiti di esecuzione, un recente approdo giurisprudenziale afferma che si sostanziano in condizioni per la stipulazione del contratto di appalto (cfr. Cons. Stato, n. 5734/2020; n. 5740/2020; n. 1071/2020), pur potendo essere considerati nella lex specialis come elementi dell’offerta, a volte essenziali (cfr. Cons. Stato n. 2190/2019), più spesso idonei all’attribuzione di un punteggio premiale (cfr. Cons. Stato n. 2090/2020 e n. 5309/2019).
In tale solco giurisprudenziale si inserisce la sentenza in commento.
In particolare, l’appellante aveva censurato la sentenza di primo grado in quanto non aveva rilevato la genericità e l’indeterminatezza dell’offerta presentata dall’aggiudicataria.
Secondo l’appellante taluni requisiti di esecuzione del contratto avrebbero dovuto essere presenti e espressamente indicati dal concorrente (poi divenuto aggiudicatario) sin dalla presentazione dell’offerta essendo qualificati dalla disciplina di gara quali elementi essenziali del contratto.
Il Consiglio di Stato ha accolto l’appello.
In particolare, il Collegio adito ha richiamato la giurisprudenza che si è formata in merito alla differenza tra requisiti di partecipazione e requisiti di esecuzione, tuttavia il Collegio ha anche valorizzato la funzione che in concreto i requisiti di esecuzione devono svolgere, secondo la disciplina di gara, nella gara stessa.
Secondo il Consiglio di Stato i requisiti di esecuzione sono condizioni essenziali del contratto e possono essere richiesti dalla lex specialis come elementi essenziali dell’offerta o per l’attribuzione di un punteggio premiale.
Se tali requisiti di esecuzione sono richiesti come elementi essenziali dell’offerta la loro mancanza al momento di partecipazione alla gara comporta l’esclusione del concorrente, mentre se sono richiesti per l’attribuzione di un punteggio premiale la loro mancanza al momento di partecipazione alla gara comporta mancata attribuzione del punteggio.
In particolare, il Consiglio di Stato ha statuito che: “Riguardo invece ai requisiti di esecuzione l’approdo giurisprudenziale più recente, che si intende ribadire, è nel senso che essi sono, di regola condizioni per la stipulazione del contratto di appalto(cfr. Cons. Stato, V, 30 settembre 2020, n. 5734; 30 settembre 2020, n. 5740; 12 febbraio 2020, n. 1071), pur potendo essere considerati nella lex specialis come elementi dell’offerta, a volte essenziali (cfr. Cons. Stato, V, 3 aprile 2019, n. 2190), più spesso idonei all’attribuzione di un punteggio premiale (cfr. Cons. Stato, V, 29 luglio 2019, n. 5309 e 25 marzo 2020, n. 2090)”, pertanto “…la regolazione dei c.d. requisiti di esecuzione va rinvenuta nella lex specialis, con la conseguenza che, se richiesti come elementi essenziali dell’offerta o per l’attribuzione di un punteggio premiale, la loro mancanza al momento di partecipazione alla gara comporta, rispettivamente l’esclusione del concorrente o la mancata attribuzione del punteggio; se richiesti come condizione per la stipulazione del contratto, la loro mancanza rileva al momento dell’aggiudicazione o al momento fissato dalla legge di gara per la relativa verifica e comporta la decadenza dall’aggiudicazione, per l’impossibilità di stipulare il contratto addebitabile all’aggiudicatario”.
Secondo il Collegio spetta alla stazione appaltante, nella predisposizione degli atti di gara, conciliare le contrapposte esigenze di evitare, da un lato, inutili aggravi di spesa a carico degli operatori economici concorrenti per procurarsi già al momento dell’offerta la disponibilità di beni e mezzi, senza avere la certezza dell’aggiudicazione e con effetti discriminatori ed anti-concorrenziali perché di favore per gli operatori già presenti sul mercato ed in possesso delle dotazioni strumentali, nonché con violazione del principio di proporzionalità (cfr. Corte di Giustizia U.E., sez. I, 8 luglio 2021, n. 428); dall’altro, quella della stazione appaltante di garantire la serietà e l’effettività dell’impegno assunto dal concorrente di dotarsi dei mezzi necessari all’espletamento del servizio.
In conclusione, il Consiglio di Stato in merito ai requisiti di esecuzione ha affermato che: i) sono condizioni essenziali del contratto e possono essere richiesti dalla lex specialis come elementi essenziali dell’offerta o per l’attribuzione di un punteggio premiale; ii) se tali requisiti di esecuzione sono richiesti come elementi essenziali dell’offerta la loro mancanza al momento di partecipazione alla gara comporta l’esclusione del concorrente, mentre se sono richiesti per l’attribuzione di un punteggio premiale la loro mancanza al momento di partecipazione alla gara comporta mancata attribuzione del punteggio; iii) la lex specialis ha il compito di individuare quale delle due “funzioni” debbano svolgere i requisiti di esecuzione e nel farlo deve contemperare l’esigenza dell’Amministrazione di garantire la serietà dell’offerta ma anche quella dei concorrenti di non aggravare l’accesso alla procedura di gara.
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