Libertà delle forme di pubblicità nell’indagine esplorativa: il “principio di risultato”

Avv. Stefano Cassamagnaghi

La recente sentenza del Consiglio di Stato del 20 aprile 2023, sez. IV 20/4/2023, n. 4014, si è occupata – in relazione ad un affidamento soggetto al D. Lgs. 163/2006 – del tema delle forme di pubblicità delle indagini esplorative menzionando in una pronuncia, per quanto consta, per la prima volta il “principio di risultato” di cui all’art. 1 del D.Lgs. 33/2023.
La fattispecie oggetto di controversia concerne l’affidamento di lavori di realizzazione di un impianto geotermico per una scuola materna, per il quale la stazione appaltante aveva individuato i soggetti qualificati mediante un’indagine esplorativa di mercato. In particolare, il RUP aveva espletato l’indagine di mercato mediante una ricerca su Internet – ed in specie sul sito dell’ANAC – nella parte in cui individua i soggetti in possesso di qualificazione SOA, e in fiere di settore; altre società avevano partecipato alla procedura perché avevano appreso dell’appalto in questione dalla pubblicazione sulla stampa locale della notizia del finanziamento dei lavori.
La Regione aveva revocato il finanziamento dell’appalto ritenendo che la procedura di gara fosse stata condotta in maniera inadeguata per violazione degli obblighi di informazione e pubblicità di cui al D.Lgs. 163/2006 tali da non garantire il rispetto dei principi comunitari di non discriminazione, in quanto l’avviso della procedura non era stato debitamente pubblicato.
Il TAR ha accolto il ricorso del Comune ritenendo adeguate le forme di pubblicità utilizzate anche alla luce dell’importo esiguo dell’appalto e della sussistenza della libertà delle forme di pubblicità applicabili; la Regione ha quindi impugnato la sentenza di primo grado davanti al Consiglio di Stato lamentando la violazione dei principi comunitari di trasparenza e par condicio.
Il Consiglio di Stato ha rigettato l’appello. In particolare, il Consiglio di Stato ha ritenuto applicabile la disciplina di cui all’art. 125 D.Lgs. 163/2006, che prevedeva l’affidamento di lavori per un importo superiore a 40.000 e fino a 200.000 euro mediante trattativa privata previa indagine di mercato, ritenendo che la stessa fosse sottoposta unicamente al rispetto dei principi generali di imparzialità, correttezza, buona fede e proporzionalità, prescindendo da molte regole formali che governano i contratti pubblici.
In particolare, secondo il Collegio: i) tra i principi eurounitari immediatamente applicabili al caso di specie, assume particolare rilievo il principio di proporzionalità, inteso nella specifica materia dei contratti pubblici come garanzia di un ragionevole equilibrio tra i mezzi utilizzati e fini perseguiti, ii) nel D.Lgs. 163/2006, a differenza del Codice di cui al D.Lgs. 50/2016, il principio della trasparenza non era tutelato come fine in sé, ma, più correttamente, come mezzo in vista del raggiungimento del risultato di una effettiva concorrenza; iii) anche la CGUE non avrebbe mai dato seguito ad approcci meramente formalistici, ispirati al solo rispetto della legalità o a una tutela fideistica della concorrenza, mettendo in evidenza che dal principio di proporzionalità consegue che le norme stabilite dagli Stati membri o dalle amministrazioni aggiudicatrici nell’ambito dell’attuazione delle disposizioni delle direttive eurounitarie non devono andare oltre quanto è necessario per raggiungere gli obiettivi previsti da queste ultime; iv) il principio di proporzionalità, inteso nei termini suindicati, comprenderebbe in sé il divieto di aggravio del procedimento, impedendo che nella fissazione o nell’interpretazione delle prescrizioni della legge di gara possano essere previsti adempimenti superflui o ridondanti; v) dal principio di proporzionalità deriva, pertanto, il corollario “… della c.d. «strumentalità delle forme» ad un interesse sostanziale dell’Amministrazione, di cui la giurisprudenza amministrativa ha fatto costante applicazione nel contenzioso in materia di appalti pubblici, e che di recente è stato codificato, mediante l’icastica formula del principio del risultato, dall’art. 1 del nuovo codice degli appalti di cui al decreto legislativo n. 36 del 31 marzo 2023…”.
Sulla base di tali premesse il Giudice ha dunque concluso per la legittimità dell’indagine di mercato sulla base anche del rilievo per cui “la libertà di forme che ha caratterizzato la fase della ricerca di mercato “volta a individuare gli operatori economici in possesso dei necessari requisiti di qualificazione” non pare aver provocato effetti distorsivi o di chiusura al mercato, ma, anzi, aver consentito, secondo un approccio funzionale/sostanzialistico di stampo comunitario, di intercettare i competitori (effettivamente) interessati a partecipare alla procedura”.
Al di là del caso specifico è di particolare interesse, nell’ottica del Codice del 2023, l’inciso in cui si afferma che il principio di risultato è connesso al principio di proporzionalità, inteso nella specifica materia dei contratti pubblici come garanzia di un ragionevole equilibrio tra i mezzi utilizzati e fini perseguiti, il quale – a sua volta – implica quello della strumentalità delle forme alla rispondenza ad un interesse sostanziale dell’amministrazione.
Rileva il Consiglio di Stato che “Già nella sistematica delle direttive comunitarie 2004/17/CE e 2004/18/CE, secondo l’impostazione più accreditata, sia in dottrina, sia in giurisprudenza, le procedure di affidamento erano contrassegnate da tre compiti concatenati: presidiare l’imparzialità e la correttezza amministrativa, salvaguardare la concorrenza, promuovere la convenienza e l’efficienza dei contratti pubblici (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 9 dicembre 2004 n. 7898)”, e che, “come messo in luce dalla migliore dottrina, nell’ ottica del diritto comunitario vigente ratione temporis, il principio della trasparenza non era tutelato come fine in sé, ma, più correttamente, come mezzo in vista del raggiungimento del risultato di una effettiva concorrenza. La trasparenza doveva, già al tempo dei fatti per i quali si controverte, e non diversamente di quanto si ritiene oggi, essere intesa come metodo in vista del raggiungimento di un più ampio assetto concorrenziale”.
Il Consiglio di Stato fornisce una sostanziale definizione del principio di risultato laddove afferma che una impostazione “secondo cui la P.A. non cura più l’interesse pubblico perché il suo obiettivo diventa la gara, sarebbe irragionevole, sol che si rifletta sulla elementare considerazione per cui nessuna organizzazione può avere successo badando soprattutto a rispettare i vincoli senza preoccuparsi del raggiungimento degli obiettivi”, rilevando che tale impostazione è in linea con il diritto comunitario e con i principi del risultato.
Ricorda infatti che, la Corte di Giustizia “non ha mai dato seguito ad approcci meramente formalistici, ispirati al solo rispetto della legalità o a una tutela fideistica della concorrenza”, dando applicazione al principio di proporzionalità (Corte di Giustizia UE 30 gennaio 2020 in causa C-395/18; sul punto, v. anche Commissione contro Repubblica di Malta, C-76/08 del 10 settembre 2009), in tema sindacato di proporzionalità sulle misure adottate dagli stati membri in deroga agli obblighi previsti dalle direttive eurounitarie.
Sotto il profilo costituzionale ricordano i Giudici di Palazzo Spada che “L’osservanza di tali principi costituisce, tra l’altro, attuazione delle stesse regole costituzionali dell’imparzialità e del buon andamento, che devono guidare l’azione della pubblica amministrazione ai sensi dell’art. 97 della Costituzione. Il principio di proporzionalità, inteso nei termini suindicati, comprende in sé il divieto di aggravio del procedimento, impedendo che nella fissazione o nell’interpretazione delle prescrizioni della legge di gara possano essere previsti adempimenti superflui o ridondanti”.
Infine si precisa che i vari principi dei trattati eurounitari che regolano i contratti pubblici vanno bilanciati in relazione al caso concreto, ed in particolare “bilanciati, non massimizzati: la massimizzazione di un principio comporta l’«annichilimento» del principio o dei principi incompatibili e, dunque, la violazione dell’ordinamento che impone un’attuazione – ancorché minima – a tutti i principi dello stesso «rango»”, per affermare quindi che “all’esito della predetta operazione di bilanciamento, il principio soccombente recede, come è stato acutamente rilevato in dottrina, nei limiti del criterio di proporzionalità. Il bilanciamento impedisce che vi sia un sacrificio integrale di un principio a favore dell’altro e risponde a una logica chiaroscurale di applicazione fino a un certo limite” (Corte di Giustizia UE 10 luglio 2014 (in causa C-358/12), Consorzio Stabile Libor Lavori).
Tali passaggi della sentenza sono particolarmente interessanti perché forniscono una indicazione di come vada applicato il principio di risultato del nuovo Codice e della logica sottesa, in linea con quanto esplicitato nella Relazione al Codice laddove si afferma che il principio del risultato (art. 1) è destinato ad operare sia come criterio prioritario di bilanciamento con altri principi nell’individuazione della regola del caso concreto, sia, insieme con quello della fiducia nell’azione amministrativa (art. 2), come criterio interpretativo delle singole disposizioni, evidenziandosi altresì il carattere funzionale – i.e. strumentale – dei principi di concorrenza e di trasparenza rispetto ad esso.
In definitiva il principio del risultato comporta l’applicazione di un bilanciamento tra principi che, laddove in potenziale contrasto tra loro, fa si che il principio soccombente sia destinato a recedere nei limiti del criterio di proporzionalità avuto riguardo al caso concreto, da risolversi in vista del perseguimento del primario interesse alla massima tempestività ed al migliore rapporto possibile tra qualità e prezzo (art. 1 D. Lgs. 33/2023).

Acquisti centralizzati e autonomia delle singole stazioni appaltanti. Valutazione di convenienza ex ante

Avv. Stefano Cassamagnaghi

Il Consiglio di Stato, con sentenza del 15 marzo 2023, n. 2728 si è occupato del tema del rapporto tra l’affidamento da parte della centrale di committenza e quello delle singole amministrazioni potenziali beneficiarie dell’affidamento medesimo.

Un operatore economico era risultato aggiudicatario di uno dei lotti in cui era stata articolata una gara indetta da Consip. Una delle amministrazioni beneficiarie della relativa convenzione aveva però indetto una gara autonoma avente oggetto (almeno in parte) sovrapponibile, di talché tale operatore economico ha impugnato l’aggiudicazione di tale gara per violazione dell’obbligo di adesione allo strumento di acquisto centralizzato, lamentando la violazione la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 1, comma 449, l. 27 dicembre 2006 n. 296; dell’art. 1, comma 1 e 3, l. 7 agosto 2012 n. 135; dell’art. 1, comma 510, l. 28 dicembre 2015 n. 208.

Il TAR giudicava tardiva tale impugnazione, onde l’operatore economico appellava la sentenza in Consiglio di Stato sostenendo che l’interesse dell’aggiudicatario della gara Consip ad impugnare la gara autonoma indetta dalla singola Amministrazione – che sarebbe tenuta invece ad aderire alla Convenzione della centrale di committenza – sorgerebbe solo dopo l’aggiudicazione della gara autonoma, poiché solo in tale momento sarebbe possibile rilevare che l’offerta dell’aggiudicatario della gara Consip sarebbe più conveniente rispetto a quella dell’operatore che si è aggiudicato la gara autonoma.

Il Consiglio di Stato, con la sentenza in commento, ha respinto l’appello, confermando la tardività del ricorso sia pur con motivazione parzialmente differente rispetto a quella del TAR.

Il fulcro della decisione del Consiglio di Stato sta nell’interpretazione dell’art. 1, comma 510, della legge n. 208 del 2015 (legge di stabilità 2016), a norma del quale: “Le amministrazioni pubbliche obbligate ad approvvigionarsi attraverso le convenzioni di cui all’articolo 26 della legge 23 dicembre 1999, n. 488, stipulate da Consip SpA, ovvero dalle centrali di committenza regionali, possono procedere ad acquisti autonomi esclusivamente a seguito di apposita autorizzazione specificamente motivata resa dall’organo di vertice amministrativo e trasmessa al competente ufficio della Corte dei conti, qualora il bene o il servizio oggetto di convenzione non sia idoneo al soddisfacimento dello specifico fabbisogno dell’amministrazione per mancanza di caratteristiche essenziali”.

Secondo il Consiglio di Stato tale norma implica che la valutazione comparativa dei costi, e dunque della convenienza a procedere con gara autonoma, sia effettuata ex ante, in vista dell’adozione del bando di gara autonoma. Una valutazione ex post, e dunque sulla base dell’esito della gara autonoma, sarebbe invece violativa del divieto di aggravio del procedimento amministrativo (cfr. art. 1, comma 2, della legge n. 241 del 1990), che è da considerarsi principio generale, derogabile solo a fronte di una espressa ed inequivoca disposizione di legge. Inoltre, la rimessione della valutazione all’esito della procedura contrasterebbe con il principio di economicità dell’azione amministrativa (art. 1, comma 1, della legge n. 241 del 1990) “per cui si rivelerebbe del tutto illogico far bandire e soprattutto svolgere una pubblica gara (autonoma) per poi decidere di porla nel nulla in esito ad una valutazione comparativa dei prezzi soltanto finale, o ex post (e non piuttosto iniziale, ossia ex ante). Un tale modus operandi (svolgimento gara autonoma e valutazione comparativa prezzi solo finale) determinerebbe infatti un inammissibile spreco di risorse e di attività amministrativa, il che finirebbe per denotare una frizione procedimentale ancor più evidente ove soltanto si consideri il settore in cui si opera (appalti pubblici, per l’appunto)”.

Tale assetto conferma, dunque, secondo il Consiglio di Stato, che l’atto lesivo per l’affidatario della gara centralizzata è quello di indizione della gara autonoma e non quello di aggiudicazione della stessa.

In ogni caso, nella fattispecie concreta, il Giudice amministrativo ha rilevato la non piena sovrapponibilità tra l’affidamento centralizzato e quello autonomo, escludendo dunque anche sotto questo profilo la sussistenza di profili di illegittimità nella scelta della stazione appaltante interessata di procedere con la gara extra Convenzione, che peraltro si era manifestata di fatto più conveniente rispetto all’aggiudicazione Consip.

Se sotto il profilo processuale, e dunque della necessità di impugnare immediatamente la gara autonoma, la sentenza non appare innovativa, la stessa evidenzia comunque il delicato problema dei rapporti tra gara centralizzata e periferica, e dunque dello spazio di autonomia delle singole stazioni appaltanti rispetto alle centrali di committenza e ai soggetti aggregatori, considerato che il suddetto all’art. 1, comma 510, della legge n. 208 del 2015 detta, ad avviso di chi scrive, una regola da interpretarsi restrittivamente laddove afferma che il bene o il servizio oggetto di convenzionenon deve essere “idoneo al soddisfacimento dello specifico fabbisogno dell’amministrazione per mancanza di caratteristiche essenziali”, con ciò introducendo un concetto – di essenzialità, appunto – che dovrebbe far sì che solo in casi del tutto eccezionali si possa uscire dall’ambito operativo dell’acquisto centralizzato.

La facoltà di non aggiudicare la gara e il termine per la stipula del contratto: poteri e limiti

Avv. Stefano Cassamagnaghi

La sentenza del Consiglio di Stato n. 384 del 11 gennaio 2023 e la sentenza del TAR Lombardia-Milano, n. 254 del 31 gennaio scorso, affrontano la questione dei poteri e dei limiti della stazione appaltante in merito, rispettivamente, alla facoltà di non aggiudicare la gara e all’obbligo di stipula del contratto dopo l’aggiudicazione.

In particolare, in merito alla facoltà di non aggiudicare la gara, il Consiglio di Stato ha qualificato come discrezionale la valutazione dell’Amministrazione, ancorché risulti essere rigidamente ancorata ai presupposti (e ai limiti) delineati dall’art. 95, comma 12, D.Lgs. 50/2016; rispetto all’obbligo di stipulare il contratto, una volta intervenuta l’aggiudicazione, tali poteri della stazione sono fortemente limitati nel senso che soggiacciono ai limiti di natura squisitamente temporale individuati dall’art. 32, comma 8, D.Lgs. 50/2016, disposizione posta a tutela dell’appaltatore.

Come noto, la facoltà della stazione appaltante di non aggiudicare la gara è disciplinata dall’art. 95, comma 12, D.Lgs. 50/2016 secondo cui “Le stazioni appaltanti possono decidere di non procedere all’aggiudicazione se nessuna offerta risulti conveniente o idonea in relazione all’oggetto del contratto. Tale facoltà è indicata espressamente nel bando di gara o nella lettera di invito.”

Come ritenuto dalla giurisprudenza amministrativa la facoltà di non aggiudicare la gara compete alla stazione appaltante e non alla commissione di gara, risponde ad una valutazione dell’interesse pubblico attuale da parte del committente, che prescinde dall’esistenza di vizi di legittimità, ma si basa sulla valutazione che l’offerta non risulti «conveniente o idonea», sempreché tale facoltà sia indicata espressamente nel bando di gara o nella lettera d’invito. Tale facoltà rientra nei poteri discrezionali della stazione appaltante, e la decisione è conseguenza di un apprezzamento di merito che va adeguatamente motivato, dovendo risultare in termini puntuali e specifici gli elementi di inidoneità che giustificano la mancata aggiudicazione (Cons. di Stato n. 6725/2018; ibidem Cons. Stato n. 2838/2007).

La sentenza in commento (Consiglio di Stato n. 384 del 11 gennaio 2023) si inserisce nel solco giurisprudenziale indicato chiarendo i limiti del potere discrezionale di valutazione della stazione appaltante sul punto.

Nel caso in esame, l’aggiudicazione del servizio a favore della prima classificata era stata annullato in sede giudiziale ed era stato riconosciuto il diritto all’aggiudicazione, mediante scorrimento della graduatoria, alla seconda graduata. La stazione appaltante ha ritenuto, tuttavia, di non aggiudicare la gara alla seconda classificata ai sensi dell’art. 95, comma 12, D.Lgs. 50/2016, optando per la riedizione della gara, in quanto ha ritenuto che l’offerta della seconda classificata fosse inidonea e non conveniente in confronto ai costi del servizio e alle nuove esigenze di approvvigionamento del servizio stesso.

Vedendosi negata l’aggiudicazione, la seconda classificata, soccombente in primo grado, ha proposto appello.

Il Consiglio di Stato ha accolto l’appello soffermandosi sui limiti del potere di non aggiudicare la gara.

Secondo il Collegio il potere di non aggiudicare la gara è sottoposto ad un limite temporale, ossia deve essere esercitato prima che venga disposta l’aggiudicazione (Cons. Stato 6725/2018), mentre una volta disposta l’aggiudicazione residuano eventualmente soltanto poteri di autotutela ai sensi dell’art. 38, comma 8, D.Lgs. 50/2016.

La facoltà di non aggiudicare la gara incontra, inoltre, ulteriori limiti nel senso deve essere ancorata alla valutazione della convenienza e dell’idoneità dell’offerta in relazione all’oggetto del contratto, mentre non rilevano valutazioni economiche sopravvenute (perché fondanti il diverso potere della revoca), né può essere giustificata da una revisione o dalla non condivisione da parte della stazione appaltante delle valutazioni già svolte della Commissione giudicatrice.

In particolare, il Consiglio di Stato ha statuito che: “Nel caso di specie è dirimente stabilire i limiti del potere di non aggiudicare di cui all’art. 95, comma 12, del codice dei contratti pubblici. In particolare se, come nella vicenda in esame, per giustificare la scelta di non aggiudicare l’amministrazione richiama profili e valutazioni già svolte dalla commissione giudicatrice si verifica una revisione sostanziale di tali giudizi; se, invece, vengono invocate esigenze sopravvenute alla conclusione della procedura di gara si fuoriesce dall’ambito normativo segnato dalla disposizione in esame la quale impone di valutare la convenienza o l’idoneità dell’offerta «in relazione all’oggetto del contratto», non con riferimento a eventi non contemplati nel programma contrattuale posto a base di gara (in relazione ai quali, invece, dovrebbero essere esercitati i poteri di revoca del bando e di rinnovo della gara).” (Consiglio di Stato, sent. n. 384 del 11 gennaio 2023).

Di converso, la giurisprudenza si è interrogata sul dovere dell’aggiudicatario di stipulare il contratto in esito alla richiesta della stazione appaltante e sui limiti del potere di quest’ultima di imporre la conclusione del contratto.

Sul tema è di recente intervenuta la citata sentenza del TAR Lombardia-Milano n. 384 del 31 gennaio 2023 che ha ancorato il potere di imporre la stipula del contratto dopo l’aggiudicazione al rispetto del rigido limite temporale sancito dall’art. 38, comma 8, D.Lgs. 50/2016.

In particolare, il ricorrente aveva impugnato il provvedimento con cui la stazione appaltante ne aveva dichiarato la decadenza dall’aggiudicazione per rifiuto di stipulare il contratto, riservandosi di chiedere all’operatore economico il risarcimento del danno derivante da tale rifiuto.

Il TAR ha accolto il ricorso dell’impresa.

Il Collegio ha statuito che – ai sensi dell’art. 32, comma 8, D.Lgs. 50/2016 – se la stipula del contratto non avviene nel termine di 60 giorni da quando l’aggiudicazione diventa efficace, l’aggiudicatario “può sciogliersi da ogni vincolo o recedere dal contratto”.

Secondo il TAR la norma è posta a tutela dell’aggiudicatario “… il quale deve poter calcolare ed attuare le scelte imprenditoriali entro tempi certi, e perciò gli attribuisce la facoltà di svincolarsi dalla propria offerta, in alternativa all’azione avverso il silenzio, di cui agli articoli 31 e 117 del codice del processo amministrativo, per ottenere la condanna dell’amministrazione a provvedere”.

Nel caso di specie il termine dei 60 giorni di cui all’art. 32 cit. era spirato e pertanto l’aggiudicataria aveva la facoltà di sciogliersi da ogni vincolo. Secondo il TAR non assume rilievo che la stazione appaltante si sia tempestivamente attivata per la stipula, chiedendo all’operatore la documentazione necessaria, in quanto la condotta del ricorrente era stata conforme ai doveri di correttezza e buona fede, avendo sempre celermente ottemperato alle richieste della stazione appaltante.

In conclusione, la facoltà di non aggiudicare la gara da parte della stazione, anche se incontra dei limiti temporali (i.e. non può essere disposta se è intervenuta l’aggiudicazione), è espressione della discrezionalità amministrativa che tuttavia è ancorata ai rigidi parametri delineati dall’art. 95, comma 12, cit. ossia l’offerta deve essere inidonea o non conveniente ma solo con riferimento all’oggetto dell’appalto.

La facoltà di non stipulare il contratto da parte dell’aggiudicatario si fonda sul dato temporale, e quindi oggettivo, del decorso del termine di 60 giorni previsto dall’art. 32, comma 8, citato, sempre che l’aggiudicatario non abbia assunto una condotta dilatoria contraria ai doveri di correttezza e buona fede. Le due sentenze in commento, dunque, lette congiuntamente, fissano importanti paletti sia alla facoltà dell’Amministrazione di incidere sull’intervenuta aggiudicazione sia alle tempistiche per la stipula del contratto conseguente all’aggiudicazione stessa.

Iscrizione nel casellario informatico e obbligo di motivazione sull’utilità della notizia

a cura dell’avvocato Stefano Cassamagnaghi

La sentenza del TAR Lazio-Roma n. 12637 del 05 ottobre 2022 si è occupata dell’obbligo di motivazione del provvedimento di iscrizione nel casellario informatico dell’ANAC.

Come noto, ai sensi dell’art. 213, comma 10, d.lgs. n. 50/2016, l’ANAC “gestisce il Casellario Informatico dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, istituito presso l’Osservatorio, contenente tutte le notizie, le informazioni e i dati relativi agli operatori economici con riferimento alle iscrizioni previste dall’articolo 80” e l’Autorità stabilisce “le ulteriori informazioni che devono essere presenti nel casellario ritenute utili ai fini della tenuta dello stesso, della verifica dei gravi illeciti professionali di cui all’articolo 80, comma 5, lettera c), dell’attribuzione del rating di impresa di cui all’articolo 83, comma 10, o del conseguimento dell’attestazione di qualificazione di cui all’articolo 84”.

L’ANAC ha quindi adottato il “Regolamento per la gestione del Casellario Informatico” che, all’art. 8, comma 2, ha specificato che la sezione B del casellario in esame contiene, tra l’altro, “ a) le notizie, le informazioni e i dati concernenti i provvedimenti di esclusione dalla partecipazione alle procedure d’appalto o di concessione e di revoca dell’aggiudicazione per la presenza di uno dei motivi di esclusione di cui all’art. 80 del codice, che consolidano il grave illecito professionale posto in essere nello svolgimento della procedura di gara od altre situazioni idonee a porre in dubbio l’integrità o affidabilità dell’operatore economico”.

L’art. 8 cit. del Regolamento prevede, inoltre, che la sezione B del casellario contiene: “b) “le notizie, le informazioni e i dati emersi nel corso di esecuzione dei contratti pubblici, relativi a: i) provvedimenti di risoluzione del contratto per grave inadempimento, anche se contestati in giudizio; ii) provvedimenti di applicazione delle penali o altri provvedimenti di condanna al risarcimento del danno o sanzioni di importo superiore, singolarmente o cumulativamente con riferimento al medesimo contratto, all’1 % del suo importo; iii) altri comportamenti sintomatici di persistenti carenze professionali”.

In buona sostanza, tale disposizione prevede delle ipotesi tipiche di annotazione nel casellario (ed in particolare, i) provvedimenti di risoluzione del contratto per grave inadempimento, anche se contestati in giudizio; ii) provvedimenti di applicazione delle penali o altri provvedimenti di condanna al risarcimento del danno o sanzioni di importo superiore, singolarmente o cumulativamente con riferimento al medesimo contratto, all’1 % del suo importo), ma anche ipotesi atipiche, definite, quali “altri comportamenti sintomatici di persistenti carenze professionali”.

Orbene, in ordine al corretto esercizio del potere di annotazione, la giurisprudenza ha poi specificato che l’ANAC ha il dovere di valutare sia la conferenza della notizia rispetto alle finalità di tenuta del Casellario informatico, sia l’utilità della stessa quale indice rivelatore di inaffidabilità dell’operatore economico.

In particolare, la giurisprudenza ha precisato che l’Autorità, prima di procedere all’iscrizione nel casellario informatico, è tenuta “a valutare l’utilità della notizia alla luce delle circostanze di fatto esposte dall’operatore economico nella sua memoria, poiché effettivamente incidenti … sulla gravità dell’errore professionale commesso e, in via indiretta, sull’apprezzamento dell’affidabilità della società da parte delle stazione appaltanti, cui è imposta la consultazione del Casellario, per ogni procedura di gara indetta successivamente all’iscrizione” (Consiglio di Stato, V, 21 febbraio 2020, n. 1318).

La stessa giurisprudenza ha poi evidenziato che un siffatto obbligo di motivazione in ordine all’utilità della notizia può ritenersi alleggerito – ma non escluso – solamente nelle ipotesi in cui vengono in considerazione fatti rilevanti quali illeciti professionali gravi, poiché rispetto ad essi il legislatore ha già effettuato a monte una valutazione in termini di “utilità” della annotazione (Tar Lazio, n. 4107/2021; Tar Lazio, n. 6032/2022).

Nel caso in esame, l’Amministrazione aveva risolto il contratto di fornitura con un consorzio stabile in quanto una delle consorziate esecutrici del Consorzio aveva affidato, all’insaputa di quest’ultimo, l’esecuzione di una parte della prestazione a un operatore terzo, senza darne comunicazione all’Amministrazione stessa in violazione degli obblighi di correttezza e buona fede, nonché della disposizione della convenzione che sanciva l’obbligo di comunicazione in parola.

L’Amministrazione ha comunicato all’ANAC la risoluzione della convenzione ai fini dell’adozione dei provvedimenti di competenza.

L’Autorità ha conseguentemente avviato nei confronti del consorzio il procedimento per l’inserimento dell’annotazione nel Casellario Informatico dell’Autorità di cui all’art. 213, comma 10, del d.lgs. 50/2016, invitandolo a presentare memorie difensive. Il procedimento si è concluso con l’annotazione della risoluzione.

Il consorzio ha impugnato il provvedimento con cui l’Autorità ha disposto l’annotazione nei suoi confronti e ne ha chiesto l’annullamento censurando, tra gli altri, i vizi di istruttoria e di motivazione del provvedimento con cui l’Autorità ha disposto l’annotazione nei confronti del Consorzio ricorrente.

Il TAR ha accolto il ricorso.

In particolare, il Collegio ha richiamato la giurisprudenza secondo cui l’Autorità, prima di procedere all’iscrizione nel casellario informatico, è tenuta a valutare l’utilità della notizia alla luce delle circostanze di fatto esposte dall’operatore economico nella sua memoria, poiché effettivamente incidenti sulla gravità dell’errore professionale commesso e, in via indiretta, sull’apprezzamento dell’affidabilità della società da parte delle stazione appaltanti, cui è imposta la consultazione del Casellario, per ogni procedura di gara indetta successivamente all’iscrizione (Consiglio di Stato, V, 21 febbraio 2020, n. 1318).

Ed infatti ha ricordato che l’Autorità deve procedere ad un’attenta valutazione dell’utilità in concreto dell’annotazione ai fini dell’apprezzamento dell’affidabilità dell’operatore che le stazioni appaltanti avrebbero potuto compiere in relazione a successive procedure di gara (Consiglio di Stato V, 21 febbraio 2020, n. 1318).

Il Collegio ha poi affermato che se è vero, infatti, che la risoluzione del contratto disposta da una stazione appaltante costituisce un’ipotesi tipica di annotazione rispetto alla quale può riconoscersi ad ANAC un’attenuazione dell’obbligo di motivazione in ordine all’utilità della notizia, è altrettanto vero che – in presenza di fattispecie connotate da evidenti elementi di “straordinarietà”, ravvisati nel caso esaminato – il giudizio sull’effettiva rilevanza del fatto, ovvero “sull’utilità in concreto” della notizia, per la valutazione dell’affidabilità dell’operatore economico, non può prescindere da un’attenta considerazione delle circostanze concrete in cui è stato adottato il provvedimento di risoluzione.

Secondo il TAR, la valutazione di tali circostanze concrete avrebbe dovuto essere adeguatamente considerata dall’Autorità ai fini di una più attenta valutazione in ordine all’utilità della notizia, e avrebbe dovuto essere indicata adeguatamente nella motivazione del provvedimento anche se si è al cospetto di una ipotesi tipica di annotazione, quale la risoluzione contrattuale.

In particolare, il TAR ha analizzato la responsabilità del consorzio  stabile – ai fini dell’annotazione – in merito alla condotta posta in essere dalla consorziata esecutrice, non attribuendo in automatico la responsabilità della risoluzione al primo, valorizzando invece la circostanza che lo stesso non era a conoscenza della condotta, causa della risoluzione, posta in essere dalla consorziata esecutrice, riconoscendo che la buona fede prevale sul generale obbligo di vigilanza.

In conclusione, l’annotazione nel casellario informatico da parte dell’ANAC di notizie ritenute “utili” deve avvenire in applicazione dei canoni di proporzionalità e ragionevolezza dell’azione amministrativa, il che presuppone, oltre al fatto che le vicende oggetto di annotazione siano correttamente riportate, anche che le stesse non siano manifestamente inconferenti rispetto alle finalità di tenuta del Casellario.

Ed infatti le annotazioni ANAC non incidono mai in maniera “indolore” nella vita dell’impresa, anche laddove non prevedano l’automatica esclusione o la conseguente interdizione dalle gare pubbliche, perché comunque rilevanti sia sotto il profilo dell’immagine sia sotto quello dell’aggravamento della partecipazione a selezioni pubbliche dovendosi considerare che qualsiasi dubbio sulla affidabilità dell’operatore economico è in grado di ridondare, per esempio, sulla partecipazione delle gare ristrette, ad invito.

Pertanto, la mera valenza di pubblicità notizia delle circostanze annotate come “utili” e il fatto che le stesse non impediscano, in via automatica, la partecipazione alle gare, non esonera l’Autorità da una valutazione in ordine all’interesse alla conoscenza di dette vicende; tale valutazione deve essere particolarmente accurata nel caso delle fattispecie non tipizzate dal Legislatore, rispetto alle quali sussiste un onere di motivazione. La sentenza in commento afferma inoltre che anche nel caso di fattispecie tipiche ma connotate, come nel caso in esame, da evidenti elementi concreti di particolarità l’alleggerimento dell’onere motivazionale, sancito dalla giurisprudenza, non esonera l’Autorità dall’esaminare gli elementi che connotano la fattispecie concreta.

Di particolare rilevanza è il fatto che il TAR ha, diversamente dall’ANAC, escluso un’automatica imputabilità al consorzio stabile della condotta realizzata dalla consorziata esecutrice, il che è principio – condivisibile – applicabile a tutti i casi in cui l’affidatario rivesta una forma plurisoggettiva o comunque complessa.

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Il procedimento di verifica dell’anomalia nei confronti di una pluralità di offerte anomale in gara da aggiudicarsi all’offerta economicamente più vantaggiosa (TAR Emilia Romagna – Bologna, n. 635/2022).

a cura dell’avvocato Stefano Cassamagnaghi

Con sentenza n. 635 del 2 agosto 2022, il TAR Emilia Romagna – Bologna ha affrontato il tema della verifica dell’anomalia e del costo della manodopera nelle gare da aggiudicarsi all’offerta economicamente più vantaggiosa.

Nel caso all’esame del TAR il concorrente risultato terzo in graduatoria ha sollevato censure avvero la posizione della seconda e della prima graduatoria, solo in relazione all’ultima delle quali la Stazione appaltante aveva eseguito il procedimento di verifica dell’anomalia nonostante tutte le quattro imprese in graduatoria, tra cui la stessa ricorrente, avessero conseguito un punteggio tecnico ed economico superiore ai 4/5 di quello disponibile.

La società ricorrente aveva dunque la necessità processuale di “scalzare”, secondo i noti principi dell’interesse al ricorso, dapprima la posizione della seconda in graduatoria, onde poter censurare la posizione dell’aggiudicataria, nei confronti della sola quale la Stazione appaltante aveva eseguito, con esito favorevole la verifica dell’anomalia. Conseguentemente la ricorrente deduceva l’illegittimità della condotta della Stazione appaltante per non avere effettuato contestualmente né la verifica dell’anomalia né la verifica del costo della manodopera ai sensi di quanto prevedono l’art. 95, c. 10 e l’art. 97 c. 5 lett. d) del D. Lgs. n. 50 del 2016.

Il TAR ha respinto la censura, dichiarando inammissibile il ricorso.

Come noto l’art. 97, comma 3 del D. Lgs. n. 50 del 2016 prevede che “Quando il criterio di aggiudicazione è quello dell’offerta economicamente più vantaggiosa la congruità delle offerte è valutata sulle offerte che presentano sia i punti relativi al prezzo, sia la somma dei punti relativi agli altri elementi di valutazione, entrambi pari o superiori ai quattro quinti dei corrispondenti punti massimi previsti dal bando di gara. Il calcolo di cui al primo periodo è effettuato ove il numero delle offerte ammesse sia pari o superiore a tre. Si applica l’ultimo periodo del comma 6” (periodo in cui si prevede che “La stazione appaltante può in ogni caso valutare la congruità di ogni offerta che, in base ad elementi specifici, appaia anormalmente bassa”).

Secondo il TAR tale norma non prevede che la verifica della congruità delle offerte sospette di anomalia (per avere superato i quattro quinti dei punteggi attribuibili) debba essere effettuata contemporaneamente, e tale diversa lettura si porrebbe in contrasto “con il carattere di speditezza e di economia procedimentale che oggettivamente deve avere tale tipologia di procedure ad evidenza pubblica”.

Conseguentemente, conclude il Giudice amministrativo, è del tutto legittimo che la Stazione appaltante sottoponga a verifica dell’anomalia la prima classificata in graduatoria e, solo qualora l’esito della verifica sia di anomalia dell’offerta esaminata, proceda a controllare la seconda e poi la terza e le successive offerte, “arrestandosi, quindi, solo nel caso in cui la verifica da ultima effettuata si concluda con la valutazione di congruità dell’offerta”.

Tale modo di procedere era peraltro indicato anche nel disciplinare di gara, con previsione che il TAR ha evidenziato essere in linea con il modello – tipo di sub procedimento approvato dal Consiglio A.N.AC. quale bando tipo n. 1/2017 (delibera n. 1228 del 22/11/2017; bando tipo pubblicato nella G.U.R.I. il 22/12/2017).

Secondo il TAR analoghe considerazioni sono applicabili alla verifica del costo della manodopera impiegata nell’appalto prevista dall’art. 95, comma 10 del D. Lgs. n. 50 del 2016 (nel testo risultante dalla modifica ad esso apportata dall’art. 60, c. 1 lett. e) del D. Lgs. n. 56 del 2017 – c.d. “decreto correttivo”), che stabilisce che “le stazioni appaltanti, relativamente al costo della manodopera, prima dell’aggiudicazione procedono a verificare il rispetto di quanto previsto all’art. 97, comma 5, lett. d)…”. Tale disposizione prevede che la stazione appaltante – nel sub procedimento di verifica delle offerte ritenute anormalmente basse – “…esclude l’offerta solo se la prova fornita non giustifica sufficientemente il basso livello di prezzi o di costi proposti, tenendo conto degli elementi di cui al comma 4 o se ha accertato, con le modalità di cui al primo periodo, che l’offerta è anormalmente bassa in quanto:…d) il costo del personale è inferiore ai minimi salariali retributivi indicati nelle apposite tabelle di cui all’art. 23, comma 16”.

Anche per questo caso, dunque, la sentenza in commento ritiene legittimo che la Stazione appaltante, una volta effettuate positivamente le verifiche sul costo del personale sull’aggiudicataria, si astenga dall’effettuare le relative verifiche anche sugli operatori economici che seguono in graduatoria.

La sentenza, dunque, fornisce un’indicazione pratica rilevante per l’operato delle Stazioni appaltanti.

Appalti di servizi e concessioni di servizi: inquadramento e differenze

a cura dell’avvocato Stefano Cassamagnaghi

Con la recente sentenza n. 4509 del 3 giugno 2022, il TAR Campania-Napoli ha affrontato la questione della differenza tra l’appalto di servizi e concessione di servizi.

Secondo la consolidata giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europa, la differenza tra un appalto di servizi e una concessione di servizi risiede nel corrispettivo della fornitura di servizi, nel senso che un appalto pubblico di servizi comporta un corrispettivo che è pagato direttamente dall’amministrazione aggiudicatrice al prestatore di servizi, mentre si è in presenza di una concessione di servizi allorquando le modalità di remunerazione pattuite consistono nel diritto del prestatore di sfruttare la propria prestazione ed implicano che quest’ultimo assuma il rischio legato alla gestione dei servizi in questione (CGUE 15 ottobre 2009, nella causa C-196/08; CGUE 13 novembre 2008, nella causa C-437/07).

In particolare, una concessione di servizi richiede che l’amministrazione concedente/aggiudicatrice abbia trasferito integralmente o in misura significativa all’operatore privato il rischio di gestione economica connesso all’esecuzione del servizio (v. CGUE 21 maggio 2015, nella causa C-269/14). In altri termini, la figura della concessione è connotata dall’elemento del trasferimento all’impresa concessionaria del rischio operativo, inteso come rischio di esposizione alle fluttuazioni di mercato che possono derivare da un rischio sul lato della domanda o sul lato dell’offerta, ossia da fattori al di fuori dalla sfera di controllo delle parti (v. il Considerando 20 e l’art. 5, n. 1, della direttiva 2014/23/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 febbraio 2014 sull’aggiudicazione dei contratti di concessione).

Tale orientamento è, peraltro, stato recepito dall’art. dall’art. 3, comma 1, lettera vv), d.lgs. n. 50/2016, che definisce come “concessione di servizi” un contratto a titolo oneroso stipulato per iscritto in virtù del quale una o più stazioni appaltanti affidano a uno o più operatori economici la fornitura e la gestione di servizi diversi dall’esecuzione di lavori, riconoscendo a titolo di corrispettivo unicamente il diritto di gestire i servizi oggetto del contratto o tale diritto accompagnato da un prezzo, con assunzione in capo al concessionario del rischio operativo legato alla gestione dei servizi.

In tale solco interpretativo si inserisce la sentenza in esame che individua la differenza tra appalti di servizi e concessione di servizi.

Nel caso di specie l’aggiudicatario, gestore del servizio di archiviazione e custodia delle cartelle cliniche di ricovero in regime ordinario e diurno di un’ASL, aveva richiesto la risoluzione del contratto con richiesta del pagamento dei danni nei confronti dell’Amministrazione atteso lo squilibrio sinallagmatico e l’insoddisfacente redditività del servizio.

Il TAR Campania ha respinto il ricorso.

Secondo il Collegio la risoluzione della controversia discende dall’inquadramento giuridico del rapporto in contestazione che qualifica come concessione di servizi.

Il TAR afferma che il rapporto di concessione di pubblico servizio si distingue dall’appalto di servizi per l’assunzione da parte del concessionario del c.d. “rischio operativo” (Consiglio di Stato, Sez. IV, n. 2426/2021): mentre l’appalto ha struttura bifasica tra appaltante ed appaltatore ed il compenso di quest’ultimo grava interamente sul primo, nella concessione, connotata da una dimensione triadica, il concessionario ha rapporti negoziali diretti con l’utenza finale, dalla cui richiesta di servizi trae la propria remunerazione.

In altri termini, secondo il Collegio l’appalto di servizi comporta un corrispettivo che, senza essere l’unico, è versato direttamente dall’amministrazione aggiudicatrice al prestatore di servizi, mentre nella concessione di servizi il corrispettivo della prestazione di servizi consiste nel diritto di gestire il servizio, o da solo o accompagnato da un prezzo, e la concessionaria non è direttamente retribuita dalla amministrazione aggiudicatrice ma ha il diritto di riscuotere la remunerazione presso terzi.

La pronuncia in esame richiama l’orientamento espresso dalla giurisprudenza di legittimità (Cass. Civ., Sez. Unite, n. 9965/2017), secondo cui la qualificazione di un’operazione come concessione di servizi o come appalto pubblico di servizi va svolta esclusivamente alla luce del diritto dell’Unione Europea: “…ai fini del diritto dell’Unione, un appalto pubblico di servizi comporta un corrispettivo che è pagato direttamente dall’amministrazione aggiudicatrice al prestatore di servizi mentre, al contrario, è ravvisabile concessione di servizi allorquando le modalità di remunerazione pattuite consistono nel diritto del concessionario di gestire funzionalmente e di sfruttare economicamente il servizio, traendo la propria remunerazione dai proventi ricavati dagli utenti, di modo che sul concessionario gravi il rischio legato alla gestione del servizio (Corte di Giustizia dell’Unione Europea, 10 novembre 2011, causa C-348/10; 10 marzo 2011, causa C-274/09; 18 luglio 2007, causa C-382/05; 20 ottobre 2005, causa C-264/03; 18 gennaio 2007, causa C-220/05)”.

In considerazione del fatto che la fattispecie in questione rientra nell’alveo della concessione, il TAR ha respinto il ricorso in quanto l’operatore non può lamentarsi dello squilibrio sinallagmatico e della insoddisfacente redditività del servizio atteso che il concreto rischio operativo – nei termini sopra indicati – era ben desumibile dalla disciplina di gara.

In conclusione, dunque, secondo la sentenza in esame: i) la differenza tra un appalto di servizi e una concessione di servizi risiede nel corrispettivo della fornitura di servizi, nel senso che un appalto pubblico di servizi comporta un corrispettivo che è pagato direttamente dall’amministrazione aggiudicatrice al prestatore di servizi, mentre si è in presenza di una concessione di servizi allorquando le modalità di remunerazione pattuite consistono nel diritto del prestatore di sfruttare la propria prestazione ed implicano che quest’ultimo assuma il rischio legato alla gestione dei servizi in questione; ii) la figura della concessione è connotata dall’elemento del trasferimento all’impresa concessionaria del rischio operativo, inteso come rischio di esposizione alle fluttuazioni di mercato che possono derivare da un rischio sul lato della domanda o sul lato dell’offerta, ossia da fattori al di fuori dalla sfera di controllo delle parti; iii) l’operatore economico non può lamentarsi dell’antiremuneratività del servizio se è determinata dalle fluttuazioni di mercato ossia se rientra nel rischio operativo.

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Corte di giustizia UE: l’obbligo della mandataria di possedere i requisiti ed eseguire in misura maggioritaria l’appalto non è conforme alla direttiva 2014/24/UE

a cura dell’avvocato Stefano Cassamagnaghi

Con la sentenza del 28 aprile 2022 (causa C-642/2020), la Corte di Giustizia dell’Unione Europa ha dichiarato la non conformità alla direttiva 2014/24/UE dell’art. 83, comma 8, terzo periodo, del d.Lgs. 50/2016 laddove prescrive l’obbligo della mandataria del RTI di possedere i requisiti ed eseguire in misura maggioritaria l’appalto.

In particolare la Corte di Giustizia ha statuito che: “L’articolo 63 della direttiva 2014/24/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2014, sugli appalti pubblici e che abroga la direttiva 2004/18/CE, deve essere interpretato nel senso che esso osta ad una normativa nazionale secondo la quale l’impresa mandataria di un raggruppamento di operatori economici partecipante a una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico deve possedere i requisiti previsti nel bando di gara ed eseguire le prestazioni di tale appalto in misura maggioritaria“.

La vicenda trae origine da una procedura aperta per l’affidamento del servizio di spazzamento, raccolta e trasporto allo smaltimento dei rifiuti solidi urbani ed altri servizi di igiene pubblica in 33 comuni.

Il Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana, accogliendo la domanda dell’appellante, ha sottoposto all’attenzione della Corte di giustizia il possibile conflitto tra la previsione di cui all’art. 83, comma 8, d.lgs. 50/2016, in tema di selezione degli operatori economici, e quella invece contenuta all’art. 89, comma 1, d.lgs. 50/2016, in materia di avvalimento (Cons. giust. amm. reg. Sic., 24 novembre 2020, n. 1106).

Come noto, l’articolo 83, comma 8, terzo periodo, del Dlgs 50/2016, stabilisce che in caso di partecipazione di un raggruppamento di operatori economici ad una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico “la mandataria in ogni caso deve possedere i requisiti ed eseguire le prestazioni in misura maggioritaria”.

La ratio della norma consiste nell’evitare che la mandataria, all’interno di un raggruppamento, possa assumere una posizione secondaria, dovendo la stessa essere il soggetto maggiormente qualificato ed affidatario della parte preponderante dell’appalto (ex multis, Cons. Stato, sez. III, 1 luglio 2020, n. 4206; Cons. Stato, sez. III, 16 aprile 2018, n. 2257; Cons. Stato, sez. V, 8 febbraio 2017, n. 560).

L’art. 89, comma 1, d.lgs. 50/2016, prevede che l’operatore economico possa “soddisfare la richiesta relativa al possesso dei requisiti di carattere economico, finanziario, tecnico e professionale […] necessari per partecipare ad una procedura di gara […] avvalendosi delle capacità di altri soggetti, anche partecipanti al raggruppamento, a prescindere dalla natura giuridica dei suoi legami con questi ultimi“.

Ed infatti, l’istituto dell’avvalimento è volto a consentire la concorrenza più ampia possibile nell’ambito degli appalti pubblici, riconoscendo alle imprese la possibilità di servirsi, per partecipare ad una gara, dei requisiti forniti da altri operatori economici.

Secondo il C.G.A.R.S., la previsione di cui all’art. 83, comma 8, d.lgs. 50/2016 potrebbe, quindi, incidere e condizionare il ricorso all’avvalimento, finendo per contrastare con quanto indicato dalla direttiva 2014/24/UE, che all’art. 63 paragrafo 1 non sembra porre limitazioni alla possibilità che l’operatore economico faccia affidamento senza restrizioni alle capacità di altri soggetti ricorrendo all’avvalimento.

Con la sentenza del 28 aprile 2022 (Caruter Srl, C-642/20), la Corte di Giustizia ha affermato che l’art. 83, comma 8, d.lgs. 50/2016, nell’imporre all’impresa mandataria di un raggruppamento di operatori economici di eseguire le prestazioni “in misura maggioritaria”, e dunque chiedendo alla stessa di eseguire la maggior parte delle prestazioni contemplate dall’appalto, “fissa una condizione più rigorosa di quella prevista dalla direttiva 2014/24“.

L’art. 83 cit. si discosterebbe dall’art. 63 della direttiva 2014/24/UE, che al paragrafo 1 prevede unicamente che, per taluni tipi di appalto (tra cui gli appalti di servizi), “le amministrazioni aggiudicatrici possono esigere che taluni compiti essenziali siano direttamente svolti dall’offerente stesso o, nel caso di un’offerta presentata da un raggruppamento di operatori economici (…), da un partecipante al raggruppamento”.

Secondo la Corte di Giustizia tale impostazione “quantitativa” dell’art. 83 cit., che impone alla mandataria di svolgere direttamente la maggior parte delle prestazioni oggetto di contratto, confligge con la disciplina comunitaria che predilige, invece, un approccio “qualitativo” e non quantitativo, volto a incoraggiare la più ampia partecipazione possibile degli operatori alle gare mediante la costituzione di RTI: “la volontà del legislatore dell’Unione, conformemente agli obiettivi di cui ai considerando 1 e 2 della medesima direttiva, consiste nel limitare ciò che può essere imposto a un singolo operatore di un raggruppamento, seguendo un approccio qualitativo e non meramente quantitativo, al fine di incoraggiare la partecipazione di raggruppamenti come le associazioni temporanee di piccole e medie imprese alle gare di appalto pubbliche“.

La Corte di Giustizia dell’Unione europea, pertanto, conclude per l’incompatibilità della previsione nazionale di cui all’art. 83, comma 8, d.lgs. 50/2016 con quella di cui all’art. 63, comma 1, direttiva 2014/24/UE, riaffermando il principio della tutela della concorrenza, e la conseguente necessaria apertura alla massima partecipazione alle procedure di aggiudicazione delle commesse pubbliche.

In conclusione, secondo la Corte di Giustizia i raggruppamenti temporanei di imprese dovrebbero agevolare la partecipazione alle procedure di gara, e pertanto le limitazioni “quantitative” previste dal legislatore italiano con l’art. 83 cit. (secondo cui la mandataria del RTI ha l’obbligo di possedere i requisiti ed eseguire in misura maggioritaria) non solo risultano più rigorose rispetto a quanto disposto sul punto dalla disciplina comunitaria, ma non consentono la più ampia partecipazione possibile alle gare pubbliche da parte dei piccoli e medi operatori economici.

L’inciso dell’art. 83 secondo cui “La mandataria in ogni caso deve possedere i requisiti ed eseguire le prestazioni in misura maggioritaria” andrà dunque disapplicato in osservanza di quanto affermato dalla Corte di Giustizia, similmente a quanto accaduto allorquando la medesima Corte aveva “bocciato” la normativa italiana in materia di subappalto, mentre sarà compito delle stazioni appaltanti quello di individuare le condizioni in forza delle quali si potrà chiedere che, per ragioni “qualitative”, e dunque in vista dello svolgimento di compiti ritenuti essenziali, talune attività possano essere svolte solo da uno dei partecipanti ad un raggruppamento temporaneo di imprese.

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Il concordato C.D. in bianco e il tempo dell’autorizzazione del tribunale alla partecipazione alla gara

a cura dell’avvocato Stefano Cassamagnaghi

Con la recente sentenza n. 2078 del 22 marzo 2022, il Consiglio di Stato ha affrontato la questione dei limiti entro i quali la presentazione della domanda di ammissione al concordato c.d. in bianco con continuità aziendale e l’autorizzazione del Tribunale fallimentare alla stipula del contratto pubblico impediscono il perfezionamento della causa di esclusione dalla procedura di gara di cui all’art. 80, comma 5, lett. b) D.Lgs. 50/2016.

Come noto, l’art. 80, comma 5, cit. esclude la partecipazione delle imprese sottoposte a procedure concorsuali (fallimento, liquidazione coatta amministrativa, ecc.), ma prevede una deroga nel caso di concordato con continuità aziendale e “fermo restando quanto previsto dall’art. 110 D.Lgs. 50/2016”.

Secondo l’art. 110, comma 4, cit. (come modificato dal D.L. 32/2019 convertito in Legge n. 55/2019) anche  alle imprese che hanno depositato la domanda di concordato c.d. “in bianco” si applica la disciplina del concordato con continuità aziendale di cui all’art. 186bis della Legge Fallimentare; l’art. 186bis in parola consente la partecipazione alle procedure pubbliche di selezione anche alle imprese che hanno presentato la domanda di ammissione alla procedura di concordat,o ma che ancora non hanno ottenuto il decreto di ammissione ex art. 163 Legge Fallimentare, e a condizione che l’impresa si munisca del contratto di avvalimento dei requisiti, che non è richiesto, invece, se l’impresa è stata già ammessa al concordato.

L’art. 161, comma 6, Legge Fallimentare, che descrive il concordato in bianco prevede che – a differenza del concordato con continuità aziendale – la presentazione del piano per la continuità aziendale può essere proposto dopo il ricorso (entro un termine tra 60 e 120 giorni fissato dal Giudice),  avendo quindi un effetto “prenotativo”; al comma 7 lo stesso articolo prevede che tra il deposito del ricorso e l’ammissione al concordato per gli atti urgenti di straordinaria amministrazione occorre autorizzazione del Tribunale.

Il Consiglio di Stato, con l’ ordinanza n. 309 del 8 gennaio 2021 ha rimesso all’Adunanza Plenaria la questione, tra le altre, della definizione degli effetti derivanti dalla presentazione in corso di gara dell’’istanza di concordato in bianco ex art. 161, comma 6, R.D. n. 267/1942 (c.d. “Legge Fallimentare”), al fine di accertare se tale circostanza debba ritenersi causa di automatica esclusione dalle gare pubbliche, per perdita dei requisiti generali ai sensi all’art. 80, comma 5, lett. b) D.Lgs. 50/2016.

Sul punto si erano formati, infatti, due contrapposti orientamenti giurisprudenziali.

Il primo indirizzo affermava che la presentazione della domanda di concordato in bianco non impedirebbe la partecipazione alla gara per perdita dei requisiti generali allorché abbia contenuti “prenotativi”, ossia anticipi espressamente la volontà di presentare un piano volto alla continuità aziendale (Cons. di Stato, n. 1328/2020; Cons. Stato, n. 1772/2018; Cons. Stato n. 5519/2015).  La partecipazione alle procedure di gara non avrebbe implicato, inoltre, l’obbligo di richiedere l’autorizzazione del Tribunale, se ancora l’impresa non era stata ammessa alla procedura di concordato, in quanto tale partecipazione non sarebbe un atto di straordinaria amministrazione in quanto sarebbero tali solo quegli atti che non attengono allo scopo sociale e possono pregiudicare i creditori (Cons. di Stato, n. 2963/2019).

Il secondo filone interpretativo escludeva, invece, la partecipazione alla procedura nel caso in esame (Cons. Stato 3984/2019, TAR Piemonte 260/209, TAR Lazio-Roma 9782/2019 e TAR Bolzano 42/2020). Ciò sarebbe confermato dall’art. 186bis legge Fallimentare che consentirebbe la partecipazione delle imprese che hanno presentato il piano di continuità aziendale corredato dalla relazione del professionista che ne attesti tale finalità, quindi presupporrebbe che il piano e la relazione siano stati presentati, elementi che mancano nel caso del concordato in bianco (Corte di giustizia, sentenza del 28 marzo 2019, C-101/18).  Secondo tale indirizzo, in definitiva, possono partecipare alle gare solo le imprese già ammesse al concordato con continuità aziendale, con relativo piano approvato e munite dell’autorizzazione del Tribunale a partecipare alla singola gara.

L’Adunanza Plenaria con la decisione n. 9 del 27 maggio 2021 ha stabilito i seguenti principi di diritto: “– a) la presentazione di una domanda di concordato in bianco o con riserva, ai sensi dell’art. 161, comma 6, legge fallimentare non integra una causa di esclusione automatica dalle gare pubbliche, per perdita dei requisiti generali, essendo rimesso in primo luogo al giudice fallimentare in sede di rilascio dell’autorizzazione di cui all’art. 186 bis, comma 4, e al quale l’operatore che ha chiesto il concordato si deve tempestivamente rivolgere fornendo all’uopo le informazioni necessarie, valutare la compatibilità della partecipazione alla procedura di affidamento in funzione e nella prospettiva della continuità aziendale;

 – b) la partecipazione alle gare pubbliche è dal legislatore considerata, a seguito del deposito della domanda di concordato anche in bianco o con riserva, come un atto che deve essere comunque autorizzato dal tribunale, acquisito il parere del commissario giudiziale ove già nominato, ai sensi dell’art. 186 bis, comma 4, da ultimo richiamato anche dagli articoli 80 e 110 del codice dei contratti; a tali fini l’operatore che presenta domanda di concordato in bianco o con riserva è tenuto a richiedere senza indugio l’autorizzazione, anche qualora sia già partecipante alla gara, e ad informarne prontamente la stazione appaltante;

– c) l’autorizzazione giudiziale alla partecipazione alla gara pubblica deve intervenire entro il momento dell’aggiudicazione della stessa, non occorrendo che in tale momento l’impresa, inclusa quella che ha presentato domanda di concordato in bianco o con riserva, sia anche già stata ammessa al concordato preventivo con continuità aziendale”.

La pronuncia in commento applica i principi espressi dalla decisione n. 9/2022 dell’Adunanza Plenaria anche al caso in cui l’operatore economico abbia presentato la domanda di ammissione alla procedura di concordato preventivo e l’autorizzazione del Tribunale fallimentare alla stipula del contratto pubblico sia stata adottata dopo l’aggiudicazione, ma comunque prima della stipula stessa.

Nel caso in questione l’appellante ha presentato domanda di ammissione alla procedura di concordato preventivo nella fase finale della procedura di gara ossia “a ridosso” dell’adozione del procedimento di aggiudicazione.

La gara è stata quindi aggiudicata all’appellante, che dopo l’aggiudicazione ha comunicato alla stazione appaltante di aver presentato la domanda di ammissione alla procedura di concordato preventivo.

Dopo l’adozione del provvedimento di aggiudicazione l’appellante ha ottenuto l’autorizzazione del Tribunale fallimentare alla stipula del contratto pubblico.

L’Amministrazione ha, tuttavia, annullato in autotutela l’aggiudicazione per l’omessa comunicazione da parte dell’appellante della presentazione della domanda di concordato in bianco, ai sensi dell’art. 80, comma 5, lett. c), D.Lgs. 50/2016, nonché per la perdita del requisito di ordine generale, ai sensi dell’art. 80, comma 5, lett. b), del medesimo codice, per effetto della presentazione della domanda di concordato in bianco.

Il Giudice di primo grado ha respinto il ricorso proposto dall’aggiudicataria “revocata” ritenendo integrata la causa di esclusione di cui all’art. 80, comma 5, lett. b), D.Lgs. 50/2016, aderendo a un indirizzo del Consiglio di Stato secondo cui, per paralizzare la predetta causa di esclusione, l’autorizzazione del Tribunale fallimentare di cui all’art. 186-bis, comma 4, della legge fallimentare deve intervenire prima della conclusione della procedura di evidenza pubblica.

Il Consiglio di Stato ha accolto l’appello.

In particolare, il Collegio afferma che la questione dei limiti entro i quali la presentazione della domanda di ammissione al concordato c.d. in bianco con continuità aziendale e l’autorizzazione del Tribunale impediscano il perfezionamento della causa di esclusione dalla procedura di gara, descritta dall’art. 80, comma 5, lettera b), deve essere risolta alla luce delle enunciazioni di principio rese dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato nella sentenza n. 9 del 27 maggio 2021.

Ed infatti, secondo il Collegio: “La Plenaria, anzitutto, ha precisato che «la presentazione di una domanda di concordato in bianco o con riserva, ai sensi dell’art. 161, comma 6, legge fallimentare non integra una causa di esclusione automatica dalle gare pubbliche, per perdita dei requisiti generali», essendo rimessa al giudice fallimentare in sede di rilascio dell’autorizzazione di cui all’art. 186 bis, comma 4, la valutazione della «compatibilità della partecipazione alla procedura di affidamento in funzione e nella prospettiva della continuità aziendale» … ; in secondo luogo, che «la partecipazione alle gare pubbliche è dal legislatore considerata, a seguito del deposito della domanda di concordato anche in bianco o con riserva, come un atto che deve essere comunque autorizzato dal tribunale, acquisito il parere del commissario giudiziale ove già nominato, ai sensi dell’art. 186 bis, comma 4, da ultimo richiamato anche dagli articoli 80 e 110 del codice dei contratti; a tali fini l’operatore che presenta domanda di concordato in bianco o con riserva è tenuto a richiedere senza indugio l’autorizzazione, anche qualora sia già partecipante alla gara, e ad informarne prontamente la stazione appaltante…”.

Applicando al caso di specie gli enunciati principi, il Consiglio di Stato ha affermato che la presentazione della domanda di concordato in bianco non costituisce motivo di esclusione dalla gara.

Il Collegio ha ritenuto illegittimo attribuire al preteso ritardo nella comunicazione alla stazione appaltante della presentazione domanda di ammissione al concordato in bianco da parte dell’aggiudicataria il valore di una omissione dichiarativa idonea a integrare la causa di esclusione di cui all’art. 80, comma 5, lettera c-bis),D-Lgs. 50/2016 in quanto tale comunicazione è apparsa conforme al principio di buona fede e di correttezza procedimentale.

Sulla scorta dei medesimi principi, Il Collegio ha affermato che l’autorizzazione del Tribunale alla stipula del contratto pubblico non può considerarsi tardiva e, quindi, inefficace in quanto l’autorizzazione giudiziale è comunque intervenuta prima della possibile stipula del contratto.

In conclusione, con la sentenza in commento il Consiglio di Stato ha stabilito sulla base dei principi espressi dall’Adunanza Plenaria n. 9/2021, che l’operatore economico non incorre nella causa di esclusione di cui all’art. 80, comma 5, lett. b) D. Lgs. 50/2016 anche nel caso in cui l’autorizzazione del Tribunale ordinario alla stipula del contratto nei confronti dell’aggiudicataria, che ha presentato domanda di concordato prenotativo nella fase immediatamente antecedente all’aggiudicazione, intervenga dopo l’aggiudicazione ma comunque prima della possibile stipula del contratto.

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La decisione dell’Adunanza Plenaria sulla modifica dei raggruppamenti temporanei di imprese in fase di gara

a cura dell’avvocato Stefano Cassamagnaghi

La sentenza dell’Adunanza Plenaria del 25 gennaio 2022 n. 2 si è occupata della questione della modificabilità in corso di gara di un raggruppamento nell’ambito del quale uno dei componenti abbia perso i requisiti di cui all’art. 80 D.Lgs. n. 50/2016.

Come noto, l’originaria versione dell’art. 48, comma 9, D.Lgs. 50/2016 disponeva che era vietata qualsiasi modifica della composizione dei raggruppamenti temporanei e dei consorzi ordinari di concorrenti rispetto a quella risultante dall’impegno presentato in sede di offerta, pena l’annullamento dell’aggiudicazione e la nullità del conseguente contratto stipulato con il soggetto illegittimamente modificato.

Le uniche eccezioni erano previste dai commi 17 e 18 dell’art. 48 cit., che prevedevano la possibilità di modifica della composizione del RTI, a determinate condizioni, in caso di perdita dei requisiti di cui all’art. 80 D.Lgs. 50/2016, ma soltanto in fase esecutiva.

Il Legislatore è intervenuto sull’art. 48 cit. estendendo, altresì, l’applicazione dei citati commi 17 e 18 anche alle ipotesi di modifiche soggettive intervenute in fase di gara, introducendo il comma 19 ter, secondo cui: “Le previsioni di cui ai commi 17, 18 e 19 trovano applicazione anche laddove le modifiche soggettive ivi contemplate si verifichino in fase di gara”.

Tale ultima modifica ha lasciato, tuttavia, inalterato l’inciso in ordine alla limitazione alla sola fase esecutiva della possibilità di variazione della compagine dei raggruppamenti per la perdita dei requisiti di cui all’art. 80 cit., creando, quindi, un potenziale contrasto all’interno della norma stessa.

A seguito dell’evoluzione normativa dell’art. 48 cit. si sono formati, dunque, due orientamenti giurisprudenziali.

Secondo un primo indirizzo, sarebbe possibile sostituire, in fase di gara, il componente del raggruppamento che incorra in una delle cause di esclusione di cui all’art. 80 cit., dando così prevalenza all’estensione introdotta dal comma 19 ter dell’art. 48 cit. rispetto all’inciso contenuto ai commi 17 e 18 dello stesso articolo (che limitano la modifica del RTI solo alla fase esecutiva), altrimenti – secondo tale tesi – il comma 19 ter risulterebbe privo di significato (ex multis, Consiglio di Stato, n. 2245/2020).

Un altro indirizzo ha affermato, invece, che la possibilità di modificare il raggruppamento qualora uno dei componenti perda i requisiti di cui all’art. 80, si applica esclusivamente nella fase esecutiva in quanto tale interpretazione del comma 19 ter dell’art. 48 cit. svuoterebbe – parimenti – di significato la disposizione di cui al comma 18 del medesimo articolo (Cons. Stato, n. 833/2021). Sul punto, la decisione dell’Adunanza Plenaria n. 10/2021, avente ad oggetto una questione diversa da quella in esame, incidentalmente, aveva affermato che la modifica del RTI per perdita dei requisiti di cui all’art. 80 D.Lgs. 50/2016 era consentita solo in fase esecutiva.

A fronte di tale contrasto interpretativo, con ordinanza n. 6959/2021, la Sezione V del Consiglio di Stato ha sottoposto la questione all’Adunanza Plenaria, formulando i seguenti quesiti di diritto: – “se sia possibile interpretare l’art. 48, commi 17, 18 e 19 – ter d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50 nel senso che la modifica soggettiva del raggruppamento temporaneo di imprese in caso di perdita dei requisiti di partecipazione ex art. 80 da parte del mandatario o di una delle mandanti è consentita non solo in fase di esecuzione, ma anche in fase di gara;  – in caso di risposta positiva al primo quesito, “precisare la modalità procedimentale con la quale detta modifica possa avvenire, se, cioè, la stazione appaltante sia tenuta, anche in questo caso, ed anche qualora abbia già negato la autorizzazione al recesso che sia stata richiesta dal raggruppamento per restare in gara avendo ritenuto intervenuta la perdita di un requisito professionale, ad interpellare il raggruppamento, assegnando congruo termine per la riorganizzazione del proprio assetto interno tale da poter riprendere la propria partecipazione alla gara” (Cons. Stato, ord. n. 6959/2021).

L’Adunanza Plenaria, con la sentenza in commento, ha statuito che la modifica soggettiva del raggruppamento temporaneo di imprese, in caso di perdita dei requisiti di partecipazione di cui all’art. 80 D.Lgs. 50/2016 da parte del mandatario o di una delle mandanti, è consentita non solo in sede di esecuzione, ma anche in fase di gara.

Ed infatti, l’Adunanza Plenaria ha statuito che:  “l’antinomia evidenziata possa e debba essere superata (come è noto, non ammettendo l’ordinamento lacune), attraverso il ricorso ad altre considerazioni, riconducibili ai principi di interpretazione secondo ragionevolezza ovvero secondo Costituzione (o costituzionalmente orientata), cui peraltro lo stesso criterio di ragionevolezza (riferibile all’art. 3 Cost.) si riporta”.

In particolare, secondo l’Adunanza Plenaria: “…un’interpretazione che escluda la sopravvenienza della perdita dei requisiti ex art. 80 in fase di gara, per un verso introdurrebbe una disparità di trattamento tra varie ipotesi di sopravvenienze non ragionevolmente supportata; per altro verso, perverrebbe ad un risultato irragionevole nella comparazione in concreto tra le diverse ipotesi, poiché sarebbe consentita la modificazione del raggruppamento in casi che ben possono essere considerate più gravi – secondo criteri di disvalore ancorati a valori costituzionali che l’ordinamento deve tutelare, come certamente quella inerente a casi previsti dalla normativa antimafia – rispetto a quelli relativi alla perdita di requisiti di cui all’art. 80.

Inoltre, si verificherebbe un caso di concreta incapacità a contrattare con la pubblica amministrazione da parte di imprese in sé “incolpevoli”, riguardando il fatto impeditivo sopravvenuto una sola di esse, così finendo per costituire una fattispecie di “responsabilità oggettiva”, ovvero una inedita, discutibile (e sicuramente non voluta) speciale fattispecie di culpa in eligendo”.

In merito al secondo quesito, l’Adunanza Plenaria ha affermato che, laddove si verifichi la predetta ipotesi di perdita dei requisiti, la stazione appaltante, in ossequio al principio di partecipazione procedimentale, è tenuta ad interpellare il raggruppamento e, nel caso in cui quest’ultimo intenda effettuare una riorganizzazione del proprio assetto, ad assegnare un congruo termine per la predetta riorganizzazione onde poter riprendere la partecipazione alla gara.

In conclusione, la sentenza in esame è fondamentale dal punto di vista nomofilattico in quanto ha risolto un contrasto interpretativo originato dal Legislatore stesso, che ha inserito nel medesimo articolo due commi confliggenti o comunque la cui armonizzazione risultava essere ardua.

Il metodo interpretativo utilizzato dall’Adunanza Plenaria, ossia la conformità al criterio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost. e al diritto comunitario, è conforme al principio secondo il quale l’interprete deve sempre garantire una risposta al caso concreto.

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Gara telematica: illegibilità del file contenente l’offerta

a cura dell’avvocato Stefano Cassamagnaghi

La sentenza del Consiglio di Stato del 11 novembre 2021 n. 7507, torna ad occuparsi di procedure svolte attraverso piattaforme telematiche di negoziazione di cui all’art. 58 D.Lgs. 50/2016 e delle conseguenze derivanti dall’illeggibilità dell’offerta tecnica caricata dall’operatore economico.

Come noto, la giurisprudenza ha sancito il principio di autoresponsabilità del concorrente nelle gare telematiche con particolare riferimento, ad esempio, alla tempestività del caricamento dell’offerta, all’osservanza del manuale della piattaforma informatica nonché al rispetto delle modalità di caricamento dell’offerta stessa (rispetto del formato richiesto, della sottoscrizione digitale imposta, ecc.).

In particolare, il concorrente che si appresta alla partecipazione di una gara telematica, fruendo dei grandi vantaggi logistici e organizzativi che l’informatica fornisce ai fruitori della procedura, è consapevole che occorre un certo tempo per eseguire materialmente le procedure di upload, e che tale tempo dipende in gran parte dalla performance dell’infrastruttura di comunicazione (lato utente e lato stazione appaltante), quest’ultima a sua volta interferita da variabili fisiche o di traffico.

In tale chiave ricostruttiva, l’esperienza e abilità informatica dell’utente, la stima dei tempi occorrenti per il completamento delle operazioni di upload, la preliminare e attenta lettura delle istruzioni procedurali, il verificarsi di fisiologici rallentamenti conseguenti a momentanea congestione del traffico, sono tutte variabili che il partecipante ad una gara telematica deve avere presente, preventivare e “dominare” quando si accinge all’effettuazione di un’operazione così importante per la propria attività di operatore economico, non potendo il medesimo pretendere che l’Amministrazione, oltre a predisporre una valida piattaforma di negoziazione operante su efficiente struttura di comunicazione, si adoperi anche per garantire il buon fine delle operazioni, qualunque sia l’ora di inizio delle stesse, prescelto dall’utente, o lo stato contingente delle altre variabili sopra solo esemplificamente sopra indicate (ex multis Consiglio di Stato, sez. V, 24 novembre 2020, n. 7352)

Sotto altro profilo, la giurisprudenza ha sancito che la mancata osservanza del manuale d’uso della piattaforma informatica provoca, parimenti, l’esclusione dalla procedura di gara (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 06.08.2021 n. 5792).

In merito alle caratteristiche del file da caricare sulla piattaforma la giurisprudenza amministrativa ha affermato che qualora l’illeggibilità della offerta presentata dalla concorrente dipenda da errori commessi nell’esecuzione degli adempimenti digitali necessari al suo perfezionamento e non ad una falla della piattaforma digitale, ciò comporta l’esclusione del concorrente stesso (TAR Toscana sent. del 21.04.2021 n. 557).

La sentenza in commento si inserisce nel solco giurisprudenziale appena indicato, occupandosi delle conseguenze derivanti dal caricamento di un’offerta “muta”, ossia il cui file risulti illeggibile.

In particolare, il caso trattato dal Consiglio di Stato ha ad oggetto l’impugnazione della sentenza con cui il Giudice di primo grado ha ritenuto legittima l’esclusione del concorrente per aver allegato un’offerta tecnica illeggibile nell’ambito di una gara telematica.

Il Consiglio di Stato ha rigettato l’appello.

Nel caso di specie il documento, inserito dal concorrente all’interno della busta relativa all’offerta tecnica, come previsto dalla lex specialis di gara, non è risultato leggibile per la Commissione di gara che non è riuscita ad “aprire”, e quindi, visionare il medesimo.

Come accertato in via istruttoria dalla stazione appaltante era, inoltre, incontroverso che non si fosse verificato un errore imputabile al gestore della piattaforma informatico-telematica, trattandosi – evidentemente – di un errore originario del file caricato.

Il Collegio ha statuito che: “è necessario adempiere, con scrupolo e diligenza, alle previsioni di bando e alle norme tecniche, nell’utilizzazione delle forme digitali, mettendosi altrimenti a repentaglio lo stesso funzionamento della procedura, la cui disciplina di gara è posta a garanzia di tutti i partecipanti (par condicio); l’inesatto o erroneo utilizzo, a contrario, rimane quindi a rischio del partecipante nell’ambito della propria autoresponsabilità. Né un procedimento siffatto, che è stato ideato per semplificare, può essere aggravato da adempimenti e da oneri ulteriori volti a decodificare un documento che venga prodotto da un partecipante, per propria responsabilità (Cons. St., sez. V, 7 novembre 2016 n. 4645), in modo non conforme alla proficua fruizione da parte del sistema.  Ciò infatti recherebbe in realtà pregiudizio alla stessa ratio di funzionamento del sistema informatico-telematico, che è proprio quella di consentire la celere e semplificata individuazione del migliore operatore economico offerente, ostacolando in ultima analisi l’amministrazione nell’acquisizione dei beni o dei servizi ricercati.  Diversamente opinando, le questioni che potrebbero porsi, ogniqualvolta si diverga dall’attenersi con diligenza a quanto previsto in ordine alle forme digitali da utilizzarsi, potrebbero essere così varie e molteplici, tali da frustrare le potenzialità che i sistemi informatico-telematici offrono alle pubbliche amministrazioni di pervenire alla certa e rapida individuazione del miglior offerente, senza utilizzare le ormai obsolete e farraginose procedure cartacee”.

Il Consiglio di Stato ha, inoltre, escluso l’applicazione dell’istituto del soccorso istruttorio trattandosi di un documento relativo all’offerta tecnica, stante l’espressa esclusione prevista dall’art. 83, comma 9, d.lgs. 50/2016.

In definitiva, l’esclusione dalla procedura di gara per aver allegato un’offerta tecnica non leggibile è dovuta non solo al principio di autoresponsabilità del concorrente, ma è volto anche ad assicurare che il procedimento telematico di celebrazione della procedura di gara, ideato per semplificare, non venga invece aggravato da adempimenti ulteriori, volti a decodificare un documento che venga prodotto dal partecipante in modo non conforme alle regole del sistema. In tal modo, in buona sostanza, la giurisprudenza addossa al concorrente ogni rischio connesso al caricamento dell’offerta e che non sia riconducibile direttamente ad un malfunzionamento della piattaforma.

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