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Corso Matteotti 15,
Cremona, CR 26100

Libertà delle forme di pubblicità nell’indagine esplorativa: il “principio di risultato”

Avv. Stefano Cassamagnaghi

La recente sentenza del Consiglio di Stato del 20 aprile 2023, sez. IV 20/4/2023, n. 4014, si è occupata – in relazione ad un affidamento soggetto al D. Lgs. 163/2006 – del tema delle forme di pubblicità delle indagini esplorative menzionando in una pronuncia, per quanto consta, per la prima volta il “principio di risultato” di cui all’art. 1 del D.Lgs. 33/2023.
La fattispecie oggetto di controversia concerne l’affidamento di lavori di realizzazione di un impianto geotermico per una scuola materna, per il quale la stazione appaltante aveva individuato i soggetti qualificati mediante un’indagine esplorativa di mercato. In particolare, il RUP aveva espletato l’indagine di mercato mediante una ricerca su Internet – ed in specie sul sito dell’ANAC – nella parte in cui individua i soggetti in possesso di qualificazione SOA, e in fiere di settore; altre società avevano partecipato alla procedura perché avevano appreso dell’appalto in questione dalla pubblicazione sulla stampa locale della notizia del finanziamento dei lavori.
La Regione aveva revocato il finanziamento dell’appalto ritenendo che la procedura di gara fosse stata condotta in maniera inadeguata per violazione degli obblighi di informazione e pubblicità di cui al D.Lgs. 163/2006 tali da non garantire il rispetto dei principi comunitari di non discriminazione, in quanto l’avviso della procedura non era stato debitamente pubblicato.
Il TAR ha accolto il ricorso del Comune ritenendo adeguate le forme di pubblicità utilizzate anche alla luce dell’importo esiguo dell’appalto e della sussistenza della libertà delle forme di pubblicità applicabili; la Regione ha quindi impugnato la sentenza di primo grado davanti al Consiglio di Stato lamentando la violazione dei principi comunitari di trasparenza e par condicio.
Il Consiglio di Stato ha rigettato l’appello. In particolare, il Consiglio di Stato ha ritenuto applicabile la disciplina di cui all’art. 125 D.Lgs. 163/2006, che prevedeva l’affidamento di lavori per un importo superiore a 40.000 e fino a 200.000 euro mediante trattativa privata previa indagine di mercato, ritenendo che la stessa fosse sottoposta unicamente al rispetto dei principi generali di imparzialità, correttezza, buona fede e proporzionalità, prescindendo da molte regole formali che governano i contratti pubblici.
In particolare, secondo il Collegio: i) tra i principi eurounitari immediatamente applicabili al caso di specie, assume particolare rilievo il principio di proporzionalità, inteso nella specifica materia dei contratti pubblici come garanzia di un ragionevole equilibrio tra i mezzi utilizzati e fini perseguiti, ii) nel D.Lgs. 163/2006, a differenza del Codice di cui al D.Lgs. 50/2016, il principio della trasparenza non era tutelato come fine in sé, ma, più correttamente, come mezzo in vista del raggiungimento del risultato di una effettiva concorrenza; iii) anche la CGUE non avrebbe mai dato seguito ad approcci meramente formalistici, ispirati al solo rispetto della legalità o a una tutela fideistica della concorrenza, mettendo in evidenza che dal principio di proporzionalità consegue che le norme stabilite dagli Stati membri o dalle amministrazioni aggiudicatrici nell’ambito dell’attuazione delle disposizioni delle direttive eurounitarie non devono andare oltre quanto è necessario per raggiungere gli obiettivi previsti da queste ultime; iv) il principio di proporzionalità, inteso nei termini suindicati, comprenderebbe in sé il divieto di aggravio del procedimento, impedendo che nella fissazione o nell’interpretazione delle prescrizioni della legge di gara possano essere previsti adempimenti superflui o ridondanti; v) dal principio di proporzionalità deriva, pertanto, il corollario “… della c.d. «strumentalità delle forme» ad un interesse sostanziale dell’Amministrazione, di cui la giurisprudenza amministrativa ha fatto costante applicazione nel contenzioso in materia di appalti pubblici, e che di recente è stato codificato, mediante l’icastica formula del principio del risultato, dall’art. 1 del nuovo codice degli appalti di cui al decreto legislativo n. 36 del 31 marzo 2023…”.
Sulla base di tali premesse il Giudice ha dunque concluso per la legittimità dell’indagine di mercato sulla base anche del rilievo per cui “la libertà di forme che ha caratterizzato la fase della ricerca di mercato “volta a individuare gli operatori economici in possesso dei necessari requisiti di qualificazione” non pare aver provocato effetti distorsivi o di chiusura al mercato, ma, anzi, aver consentito, secondo un approccio funzionale/sostanzialistico di stampo comunitario, di intercettare i competitori (effettivamente) interessati a partecipare alla procedura”.
Al di là del caso specifico è di particolare interesse, nell’ottica del Codice del 2023, l’inciso in cui si afferma che il principio di risultato è connesso al principio di proporzionalità, inteso nella specifica materia dei contratti pubblici come garanzia di un ragionevole equilibrio tra i mezzi utilizzati e fini perseguiti, il quale – a sua volta – implica quello della strumentalità delle forme alla rispondenza ad un interesse sostanziale dell’amministrazione.
Rileva il Consiglio di Stato che “Già nella sistematica delle direttive comunitarie 2004/17/CE e 2004/18/CE, secondo l’impostazione più accreditata, sia in dottrina, sia in giurisprudenza, le procedure di affidamento erano contrassegnate da tre compiti concatenati: presidiare l’imparzialità e la correttezza amministrativa, salvaguardare la concorrenza, promuovere la convenienza e l’efficienza dei contratti pubblici (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 9 dicembre 2004 n. 7898)”, e che, “come messo in luce dalla migliore dottrina, nell’ ottica del diritto comunitario vigente ratione temporis, il principio della trasparenza non era tutelato come fine in sé, ma, più correttamente, come mezzo in vista del raggiungimento del risultato di una effettiva concorrenza. La trasparenza doveva, già al tempo dei fatti per i quali si controverte, e non diversamente di quanto si ritiene oggi, essere intesa come metodo in vista del raggiungimento di un più ampio assetto concorrenziale”.
Il Consiglio di Stato fornisce una sostanziale definizione del principio di risultato laddove afferma che una impostazione “secondo cui la P.A. non cura più l’interesse pubblico perché il suo obiettivo diventa la gara, sarebbe irragionevole, sol che si rifletta sulla elementare considerazione per cui nessuna organizzazione può avere successo badando soprattutto a rispettare i vincoli senza preoccuparsi del raggiungimento degli obiettivi”, rilevando che tale impostazione è in linea con il diritto comunitario e con i principi del risultato.
Ricorda infatti che, la Corte di Giustizia “non ha mai dato seguito ad approcci meramente formalistici, ispirati al solo rispetto della legalità o a una tutela fideistica della concorrenza”, dando applicazione al principio di proporzionalità (Corte di Giustizia UE 30 gennaio 2020 in causa C-395/18; sul punto, v. anche Commissione contro Repubblica di Malta, C-76/08 del 10 settembre 2009), in tema sindacato di proporzionalità sulle misure adottate dagli stati membri in deroga agli obblighi previsti dalle direttive eurounitarie.
Sotto il profilo costituzionale ricordano i Giudici di Palazzo Spada che “L’osservanza di tali principi costituisce, tra l’altro, attuazione delle stesse regole costituzionali dell’imparzialità e del buon andamento, che devono guidare l’azione della pubblica amministrazione ai sensi dell’art. 97 della Costituzione. Il principio di proporzionalità, inteso nei termini suindicati, comprende in sé il divieto di aggravio del procedimento, impedendo che nella fissazione o nell’interpretazione delle prescrizioni della legge di gara possano essere previsti adempimenti superflui o ridondanti”.
Infine si precisa che i vari principi dei trattati eurounitari che regolano i contratti pubblici vanno bilanciati in relazione al caso concreto, ed in particolare “bilanciati, non massimizzati: la massimizzazione di un principio comporta l’«annichilimento» del principio o dei principi incompatibili e, dunque, la violazione dell’ordinamento che impone un’attuazione – ancorché minima – a tutti i principi dello stesso «rango»”, per affermare quindi che “all’esito della predetta operazione di bilanciamento, il principio soccombente recede, come è stato acutamente rilevato in dottrina, nei limiti del criterio di proporzionalità. Il bilanciamento impedisce che vi sia un sacrificio integrale di un principio a favore dell’altro e risponde a una logica chiaroscurale di applicazione fino a un certo limite” (Corte di Giustizia UE 10 luglio 2014 (in causa C-358/12), Consorzio Stabile Libor Lavori).
Tali passaggi della sentenza sono particolarmente interessanti perché forniscono una indicazione di come vada applicato il principio di risultato del nuovo Codice e della logica sottesa, in linea con quanto esplicitato nella Relazione al Codice laddove si afferma che il principio del risultato (art. 1) è destinato ad operare sia come criterio prioritario di bilanciamento con altri principi nell’individuazione della regola del caso concreto, sia, insieme con quello della fiducia nell’azione amministrativa (art. 2), come criterio interpretativo delle singole disposizioni, evidenziandosi altresì il carattere funzionale – i.e. strumentale – dei principi di concorrenza e di trasparenza rispetto ad esso.
In definitiva il principio del risultato comporta l’applicazione di un bilanciamento tra principi che, laddove in potenziale contrasto tra loro, fa si che il principio soccombente sia destinato a recedere nei limiti del criterio di proporzionalità avuto riguardo al caso concreto, da risolversi in vista del perseguimento del primario interesse alla massima tempestività ed al migliore rapporto possibile tra qualità e prezzo (art. 1 D. Lgs. 33/2023).