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La seconda vita degli apparecchi medicali

Che cosa succede alla strumentazione sanitaria una volta fuori dalla struttura? Esistono diverse possibili strade verso le quali l’attrezzatura dismessa può essere indirizzata, a seconda dello stato di usura e del possibile destinatario 

Tac, ecografi, apparecchi radiologici. Sono alcuni degli strumenti elettronici che nelle strutture sanitarie vanno incontro a ricambio periodico. La vita media di un dispositivo medico nei Paesi europei industrializzati varia, in base alla tipologia, dai sei ai dieci anni, dopodiché esso viene considerato obsoleto e rimpiazzato dagli ospedali con uno più avanzato. Nuove tecnologie o singole parti non funzionanti portano, spesso, alla sostituzione dell’intero apparecchio anziché a un suo aggiornamento o a una sua riparazione. La Norma Cei (Comitato Elettrotecnico Italiano) 62-5 (EN 60601-1) definisce un apparecchio elettromedicale come un “apparecchio elettrico dotato di una parte applicata che trasferisce energia verso il o dal paziente, o rileva tale trasferimento di energia verso il o dal paziente e che è: a) dotato di non più di una connessione ad una particolare alimentazione di rete; b) previsto dal suo fabbricante per essere impiegato nella diagnosi, trattamento o monitoraggio di un paziente oppure per compensare, lenire una malattia, le lesioni o menomazioni”. 

Ma qual è il destino degli apparecchi che hanno terminato il loro utilizzo all’interno di una struttura? Dipende. Non esiste, infatti, una destinazione unica. 

La cosa più comune è che vengano smaltiti come rifiuti elettronici (Raee: Rifiuti da Apparecchiature Elettriche ed Elettroniche). Oltre a rientrare nella definizione di apparecchio elettromedicale, questi strumenti rientrano, infatti, anche in quella di Apparecchiature Elettriche ed Elettroniche (Aee), cioè “le apparecchiature che dipendono, per un corretto funzionamento, da correnti elettriche o da campi elettromagnetici e le apparecchiature di generazione, di trasferimento e di misura di queste correnti e campi e progettate per essere usate con una tensione non superiore a 1000 volt per la corrente alternata e a 1500 volt per la corrente continua” (D.Lgs. 49/2014). 

Dal 15 agosto 2018 gli Aee sono suddivisi in sei categorie, tra le quali non risulta più, come avveniva in precedenza, quella specifica dei dispositivi medici. La nuova suddivisione prevede che queste apparecchiature vengano classificate, insieme alle altre, in base alle dimensioni. 

All’interno delle strutture sanitarie, l’ingegneria clinica lavora sulla verifica costante e sull’ottimizzazione degli apparecchi elettromedicali. L’Aiic (Associazione italiana ingegneria clinica) si occupa, tra le altre cose, anche del destino degli apparecchi non più utilizzabili. In particolare è chiarita, in un documento ufficiale dell’associazione, la distinzione tra “fuori uso”, che indica l’eliminazione dell’apparecchio dal circuito produttivo di diagnosi/cura, e “dismissione”, termine con il quale si stabilisce che la macchina non è più di proprietà di quell’azienda (ma teoricamente ancora utilizzabile). 

Un corretto processo di dismissione deve sempre garantire l’adeguatezza dell’intero patrimonio tecnologico aziendale e consentire la permanenza in attività soltanto di strumenti sicuri, utili, economicamente vantaggiosi e che rispondono alle norme vigenti. 

Esistono diverse possibili strade verso le quali l’attrezzatura dismessa può essere indirizzata, a seconda dello stato di usura e del possibile destinatario. Viene valutata la possibilità di reimpiegarla in un’altra Unità Operativa oppure di destinarla a Onlus, Ong o altre organizzazioni, per l’utilizzo, per esempio, in Paesi che hanno un diverso ricambio tecnologico o in via di sviluppo. 

Quando le precedenti opzioni non possono essere perseguite per l’eccessiva usura o per eccessivo dispendio economico, si dovrà procedere allo smaltimento delle apparecchiature seguendo la normativa di gestione dei Raee, con un trattamento diverso in base alla categoria di Aee. Il loro smaltimento punta, in ogni caso, al recupero differenziato dei materiali di cui sono composti, contribuendo sia ad evitare lo spreco di risorse che possono essere riutilizzate sia alla sostenibilità ambientale. Spesso, quindi, l’intervento di associazioni umanitarie, università, istituzioni e aziende private permette di donare una seconda vita a questa strumentazione. 

Ottimizzare le risorse per diminuire gli sprechi 

È finanziato con fondi europei nell’ambito del programma Life il progetto Life-Med. Attivo dal 2014 al 2017, ha come scopo lo studio e la realizzazione di un nuovo sistema di gestione e qualificazione delle apparecchiature elettromedicali dismesse, con l’obiettivo di minimizzare la quota di rifiuto e ottimizzare quella di riutilizzo. Coordinato dalla rete di cooperative Cauto, il progetto ha visto la partecipazione delle Onlus Medicus Mundi Attrezzature (Memua) e Ateliere Fara Frontiere (Aff), dell’Università di Brescia e di Legambiente Lombardia. 

Ideato, ma non ancora avviato, è il progetto MDRe (Medical Device Regeneration). Nato dall’idea dell’azienda bolognese Dismeco in collaborazione con l’associazione Zero Waste Italy, ha visto anche l’adesione dell’Università di Bologna. Focus di questo progetto è ricavare pezzi di ricambio da apparecchi dismessi o fuori uso. Ottimizzare le risorse per diminuire gli sprechi è il must in tutti i settori. E quello sanitario non fa eccezione.  (fonte: Panorama della Sanità)