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Sull’applicazione elastica della clausola sociale

a cura dell’avvocato Stefano Cassamagnaghi

Il Consiglio di Stato, con la recente sentenza n. 5483 del 21 luglio 2021, si è occupato della questione dell’applicazione della clausola sociale, individuandone la portata e i limiti applicativi.

Come noto, l’art. 50 D.Lgs. 50/2016 stabilisce che: “Per gli affidamenti dei contratti di concessione e di appalto di lavori e servizi diversi da quelli aventi natura intellettuale, con particolare riguardo a quelli relativi a contratti ad alta intensità di manodopera, i bandi di gara, gli avvisi e gli inviti inseriscono, nel rispetto dei principi dell’Unione europea, specifiche clausole sociali volte a promuovere la stabilità occupazionale del personale impiegato, prevedendo l’applicazione da parte dell’aggiudicatario, dei contratti collettivi di settore di cui all’articolo 51 del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81. I servizi ad alta intensità di manodopera sono quelli nei quali il costo della manodopera è pari almeno al 50 per cento dell’importo totale del contratto.”.

La clausola sociale impone, quindi, l’obbligo per l’impresa aggiudicataria che subentra nell’esecuzione del servizio, di assicurare i livelli occupazionali, procedendo all’assunzione del personale già alle dipendenze nell’impresa uscente.

Il dibattito relativo alla cd. clausola sociale ha da sempre oscillato tra la tutela del lavoro e la tutela della libertà di iniziativa economica intrecciandosi con il rispetto dei principi di matrice europea in tema di affidamenti pubblici.

In taluni casi – sporadici a dire il vero – il Consiglio di Stato aveva considerato legittima la disposizione della lex specialis di gara concernente la clausola sociale, che obbligava l’aggiudicatario ad assumere tutti i dipendenti – con la sola eccezione dei dirigenti – assunti dal gestore uscente, rimanendo indifferente rispetto alle esigenze organizzative e gestionali dell’aggiudicatario stesso (Cons. Stato, n. 973/2020).

Sembra invece che, ormai, la giurisprudenza abbia chiarito che nelle gare pubbliche di appalto l’obbligo di riassorbimento dei lavoratori alle dipendenze dell’appaltatore uscente, nello stesso posto di lavoro e nel contesto dello stesso appalto, deve essere armonizzato e reso compatibile con l’organizzazione di impresa prescelta dall’imprenditore subentrante.

Ne consegue che i lavoratori, che non trovano spazio nell’organigramma dell’appaltatore subentrante e che non vengano ulteriormente impiegati dall’appaltatore uscente in altri settori, sono destinatari delle misure legislative in materia di ammortizzatori sociali, ma la clausola non comporta invece alcun obbligo per l’impresa aggiudicataria di un appalto pubblico di assumere a tempo indeterminato ed in forma automatica e generalizzata il personale già utilizzato dalla precedente impresa o società affidataria (Cons. Stato, n. 6615/2020; n. 6148/2019;TAR Lazio-Roma n.12052/2019; Cons. Stato, n. 5551/2018).

La sentenza in commento si inserisce nel solco giurisprudenziale appena menzionato, affermando la necessità di un’interpretazione “elastica” della clausola sociale.

Il caso affrontato dalla sentenza in commento ha ad oggetto una procedura di gara, da aggiudicarsi con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, per l’affidamento del servizio di ristorazione scolastica comunale.

Secondo l’appellante la clausola sociale prescriveva le condizioni (minime) da rispettare nell’esecuzione del servizio quanto a numero di dipendenti e loro qualifiche, con la conseguenza che l’offerta dell’aggiudicataria, prevedendo un numero di dipendenti maggiori ma riducendo il numero delle ore di impiego e assegnando ai dipendenti qualifiche diverse da quelle del gestore uscente, avrebbe violato la disciplina di gara.

Il Consiglio di Stato ha respinto l’appello.

Secondo il Collegio con la clausola sociale la stazione appaltante non ha inteso fissare le condizioni di esecuzione del servizio inderogabili per il contraente, ma semplicemente impegnarlo al rispetto della clausola sociale stessa.

Il Consiglio di Stato delinea, quindi, le modalità di interpretazione e di applicazione della clausola sociale, affermando che:  “… della clausola sociale deve consentirsene un’applicazione elastica e non rigida per contemperare l’obbligo di mantenimento dei livelli occupazionali del precedente appalto con la libertà d’impresa e con la facoltà in essa insita di organizzare il servizio in modo efficiente e coerente con la propria organizzazione produttiva, al fine di realizzare economie di costi da valorizzare a fini competitivi nella procedura di affidamento dell’appalto (cfr. Cons. Stato, sez. V, 29 ottobre 2020, n. 6615; V, 12 settembre 2019, n. 6148; V, 10 giugno 2019, n. 3885; III, 30 gennaio 2019, n. 750; III, 29 gennaio 2019, n. 726; 7 gennaio 2019, n. 142; III, 18 settembre 2018, n. 5444; V, 5 febbraio 2018, n. 731; V, 17 gennaio 2018 n. 272; III 5 maggio 2017, n. 2078; V 7 giugno 2016, n. 2433; III, 30 marzo 2016, n. 1255).”.

In buona sostanza, il Collegio afferma che la clausola sociale di “riassorbimento” deve essere interpretata conformemente ai principi nazionali e comunitari in materia di libertà di iniziativa imprenditoriale e di concorrenza, risultando altrimenti la clausola in questione lesiva della concorrenza, dal momento che verrebbe a scoraggiare la partecipazione alla gara ed a limitare la platea dei partecipanti, nonché a ledere la libertà d’impresa, riconosciuta e garantita dall’art. 41 Cost., che sta a fondamento dell’autogoverno dei fattori di produzione.

Detta clausola, dunque, riveste portata cogente solo nel senso che l’offerente non può ridurre ad libitum il numero di unità da impiegare nell’appalto, ma tale clausola non comporta anche l’obbligo per l’impresa aggiudicataria di assumere a tempo indeterminato ed in forma automatica e generalizzata tutto il personale già utilizzato dalla precedente impresa affidataria del servizio.

In conclusione, l’interpretazione “elastica” della clausola sociale proposta dalla sentenza in commento appare l’unica praticabile in quanto consente di bilanciare gli opposti e parimenti rilevati interessi sottostanti (tutela occupazionale e libertà d’impresa)

Secondo tale approccio la “stabilità occupazionale”, che è sicuramente un obiettivo normativo primario e che assume un valore ordinamentale, deve essere promossa ma non rigidamente imposta e comunque deve essere armonizzata con i principi europei della libera concorrenza e della libertà d’impresa, così da escluderne una rigida e automatica applicazione.

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